Alla fine l'ostruzionismo delle opposizioni paga: il decreto Dignità slitta ancora. Il provvedimento che porta la firma del vicepremier, Luigi Di Maio, non arriverà in aula alla Camera prima di lunedì 30 luglio, ma solo per la discussione generale, perché le votazioni sono state calendarizzate dalla conferenza dei capigruppo per il 31 luglio, 1 e 2 agosto. Almeno il capo politico del M5S avrà la 'consolazione' della diretta televisiva per l'atto finale.
Per stappare la classica bottiglia di champagne, quella delle grandi occasioni, invece, dovrà attendere la settimana dal 6 al 10 agosto, quando a prendere in custodia il testo sarà il Senato per l'esame definitivo. Prima però la maggioranza dovrà superare l'opera di rallentamento messa in atto dalle forze di minoranza. L'efficacia dell'azione è tangibile nei lavori delle commissioni Finanze e Lavoro, dove il numero di emendamenti è sceso sì drasticamente da oltre 800 a poco più di 600, per toccare quota 300 segnalati come prioritari, ma resta comunque sopra quella soglia fisiologica per cui l'incontro diventa un vero e proprio braccio di ferro. Non col Pd, che non ha ancora ritirato la proposta di taglio alle indennità sui licenziamenti, ma lo farà appena sarà toccato l'articolo sul lavoro. "Al momento opportuno lo mangeremo, anzi lo bruceremo in pubblica piazza" scherza (ma non troppo) una deputata dem di rito renziano.
Intanto la pattuglia giallo-verde ha messo le mani avanti facendo votare innanzitutto gli articoli sui quali le proposte di modifica erano poche (impianti sportivi, delocalizzazioni e giochi tanto per citarne alcuni), ma ha comunque dovuto comunque mostrare i muscoli bocciandole praticamente tutte. Il governo ha invece 'salvato' gli emendamenti di Forza Italia sulla compensazione tra debiti e crediti di imprese e professionisti nei confronti della Pubblica amministrazione.
L'azzurro Simone Baldelli ha rivendicato come un successo del suo partito l'accantonamento, ma il viceministro dell'Economia, Laura Castelli, ha provato a smorzare gli entusiasmi, ricordando che questa è una battaglia condotta più volte dal M5S nella scorsa legislatura, dunque non sarebbe potuta passare in cavalleria proprio adesso che alla guida delle istituzioni ci sono proprio i pentastellati. Sebbene in coabitazione con la Lega, che pure ha dovuto ingoiare bocconi amari, come il mancato taglio delle tasse sulle sigarette elettroniche, gli incentivi per le televisioni locali o le prime norme per l'introduzione della flat tax (peraltro scatenando le ire di FI all'interno della coalizione di centrodestra). Nonostante la prova di forza, non è ancora esclusa la possibilità che il governo ponga la questione di fiducia sul decreto Dignità, in almeno uno dei due rami del Parlamento, per evitare brutte sorprese una volta che avrà varcato le soglie delle aule di Montecitorio e Palazzo Madama.
Le opposizioni già preparano il piano d'attacco, tanto che qualcuno ipotizza ostruzionismo con dichiarazioni di voto e interventi a titolo personale, tutti strumenti utili a rallentare la dibattito e magari a far perdere lucidità agli esponenti dell'esecutivo. Il ministro dei rapporti con il Parlamento, a domanda sulla fiducia, risponde: "Speriamo di no". Aggiungendo che dipenderà da ciò che faranno i parlamentari. Basta aspettare, dunque, per capire chi 'cederà' per primo in questa 'battaglia di nervi'. La prima della diciottesima legislatura.