Reddito di dignità (Forza Italia), reddito di cittadinanza (M5S), reddito di inclusione e bonus fiscali (Pd). I dieci milioni di poveri presenti in Italia sono, a parole, il chiodo fisso dei tre principali avversari politici – Berlusconi, Di Maio e Renzi – e al centro dei rispettivi programmi, anche se diverse sono le strade per raggiungere l'obiettivo. In un effetto domino, quello che era uno dei cavalli di battaglia della sinistra – la redistribuzione delle ricchezze a vantaggio di chi ne ha di meno – è diventato l'asso nella manica di tutti gli schieramenti politici. A cominciare dai Cinquestelle, che si autodefiniscono i 'francescani' della politica.
REDDITI PER I POVERI – "In Italia ci sono oltre 10 milioni di poveri e la misura che proponiamo da anni per affrontare seriamente questo problema è il reddito di cittadinanza. Costa 17 miliardi di euro, di cui 14 servono proprio ad aiutare chi vive sotto la soglia di povertà a trovare un lavoro e non a prendere soldi senza fare nulla", spiega Di Maio sul blog di Beppe Grillo dove punta il dito contro Silvio Berlusconi, reo di aver 'copiato' il principale obiettivo politico del M5S. La proposta di Forza Italia per i più poveri si chiama "reddito di dignità", che andrebbe ad aiutare "quei 4 milioni 750 milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà assoluta", ispirandosi alla "imposta negativa sul reddito del premio Nobel Milton Friedman". In sostanza, "lo Stato dovrà versare la somma necessaria per arrivare ai livelli di dignità garantita da Istat". Tale "soglia di dignità" viene individuata in 1.000 euro mensili, anche se la soglia varierà a seconda della zona del Paese in cui il cittadino vive e in base al numero di figli a carico. Mentre il Pd si fa vanto del Reddito di inclusione (Rei), la misura a sostegno delle classi disagiate varato dal governo Gentiloni con la quale il Pd si vuole caratterizzare come partito attento al territorio e ai bisogni della gente. "L'auspicio è che i cittadini possano riacquistare fiducia nella politica e nelle istituzioni", scrivono i circoli locali come quello di Catanzaro, dove sono state organizzate sessioni tematiche apposta per spiegare la misura in vigore dal primo gennaio. Non sono poi una novità i bonus, a cominciare dagli 80 euro la cui platea è stata di recente estesa, pensati per andare incontro ai meno abbienti.
VINCOLO MANDATO – Altro punto di contatto fra M5S e Forza Italia nella lotta contro "la casta" è il cambio di casacca. I Cinquestelle, da Alessandro Di Battista a Roberto Fico passando per il candidato premier, ne hanno fatto sempre un punto d'onore: nessuna giravolta politica e nessuna appartenenza pregressa ad altri partiti. Il vincolo di mandato però non è una trovata dei Cinquestelle, ma ha il copyright del centrodestra e, in particolare, di Silvio Berlusconi che lo sbandiera fra i punti programmatici del suo 'Albero delle libertà'.
DEFICIT E IRPEF – Mentre sul piano economico la ricetta del Movimento di Beppe Grillo coincide – quasi – con quella del Pd di Matteo Renzi ovvero: mantenimento degli 80 euro, più deficit per l'economia e taglio dell'Irpef. Su questo punto Di Maio ha rincorso Renzi che nel suo libro Avanti lanciava la sfida all'Ue: "ritorno per 5 anni ai parametri di Maastricht con deficit al 2,9%. 'Così avremo a disposizione almeno 30 miliardi per i prossimi 5 anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita'". Per il leader Cinquestelle invece si tratta di una conversione tardiva, avvenuta a novembre, dopo il viaggio a Washington. "Noi diciamo – sostenne all'epoca – che per riuscire a invertire la tendenza serve fare deficit per ripagare il debito con investimenti produttivi".
MENO TASSE – Quello su cui Pd, M5S e Forza Italia sono d'accordo è il principio liberale per eccellenza di riduzione delle tasse. Differiscono però le strategie per raggiungere lo scopo. Se Renzi vuole puntare sulla lotta all'evasione e sul "dichiarare tutto e scaricare tutto", i Cinquestelle non hanno ancora chiarito come intendono diminuire le imposte. Quel che è certo è il principio ispiratore: una equa "spending review" degli sprechi della politica. Silvio Berlusconi invece si smarca e ripete da tempo di voler approvare la cosiddetta flat tax, cioé una rimodulazione delle aliquote verso il basso. Oggi, in un'intervista al Corriere della Sera, precisa che la sua squadra sta procedendo ad individuare "la soglia più bassa possibile" alla quale "applicare una forte riduzione fiscale", che vada "soprattutto a vantaggio del ceto medio", ma pur sempre "mantenendo i conti pubblici in ordine". Quest'ultimo punto è il più delicato (su cui ieri è stato attaccato da Matteo Renzi, secondo cui le proposte di centrodestra e M5S non potranno essere coperte). Berlusconi però ribatte spiegando che "la flat tax determinerà un aumento, e non una diminuzione, del gettito". A sostenere questa tesi, l'ex Cavaliere cita il presidente Usa John F. Kennedey: "I tagli alle tasse varati dalla sua amministrazione portarono a un aumento del gettito fiscale del 33% in 6 anni, al netto dell'inflazione".