Don Zerai: Trump vada a vedere le croci delle persone morte

Intervista al prete candidato al Nobel per la Pace 2015

Il presidente Trump chiude le frontiere degli Stati Uniti, Theresa May vuole il muro di Calais e la Francia rafforza il presidio al confine di Ventimiglia. Don Mussie Zerai, prete eritreo, fondatore e presidente dell'agenzia Habescia, candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2015 e co-autore con Giuseppe Carrisi di 'Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l'ultima speranza', ha spiegato a LaPresse come ha 'dato voce a chi non ha voce'. Scritto a penna sulle magliette, inciso nell'interno delle stive, diffuso col passaparola, spedito via sms da un continente all'altro, quello di Don Zerai, Padre Mosè, non è un numero di cellulare qualunque. Si aggrappano a quel numero di telefono tutti coloro che affrontano il viaggio della speranza sui barconi: i molti che salgono sulle cosiddette carrette del mare, le famiglie che non hanno più notizie dei loro cari, i richiedenti asilo nei lager libici, i migranti nei campi profughi del Sudan. Spesso è don Zerai che, dopo aver ricevuto una drammatica telefonata, allerta la Marina militare o la guardia costiera perché soccorra i barconi in difficoltà.

Padre Zerai è nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico, ai tempi in cui nel suo Paese c'eraáil regime di Aferwerki. Orfano di madre, che ha perso a 5 anni, e con 7 fratelli, decise di scappare nel nostro Paese quando suo padre venne arrestato dalla polizia segreta eritrea. E' arrivato in Italia da profugo, con un percorso che, richiamando costantemente l'attenzione delle istituzioni sul dramma delle stragi del mare, lo ha condotto fino alla candidatura al Nobel per la Pace nel 2015 e all'ingresso nelle cento persone più influenti al mondo nel 2016, secondo la rivista Time. Ha denunciato l'omertà dei paesi dell'Africa settentrionale e subsahariana. E ha accusato senza remore i regimi dittatoriali collusi nel traffico di esseri umani.

Si parla sempre di più di restrizioni verso i flussi di migranti e i rifugiati, dall'Europa agli Usa. Cosa succederà, quali saranno le conseguenze ?

Sono muri che non serviranno a nulla, se non per la propaganda politica. La conseguenza sarà che ci sarà più rischio per chi tenta di raggiungere gli Stati Uniti o gli altri Paesi in Europa, quelli dove ci sono muri. Aumenterà il costo del viaggio e saranno sempre più spinti nelle mani dei trafficanti che approfittano della loro disperazione, della disperazione di gente che vuole chiedere asilo, raggiungere i familiari, salvarsi da guerre.

In un'epoca di muri, destra estrema e populismi, la politica della accoglienza è ancora possibile?

Sì, è possibile, anzi non c'è alternativa. Ne' muri, ne' filo spinato o propagande violente impediranno l'arrivo di chi fugge da persecuzioni, fame, conflitti o cambiamenti climatici e cerca un luogo sicuro. Queste persone fisicamente sono già qui: bisogna accoglierle in modo dignitoso. I politici di queste destre, che vogliono i muri e il filo spinato, in passato hanno spesso già governato. E si sono trovati fisicamente di fronte a queste persone e hanno dovuto rispondere accogliendoli. Chiudere le porte e respingere non è umano verso chi chiede protezione. Non ci si può comportare  proprio come li ha costretti a fuggire.

Cosa si può fare di concreto per gestire il fenomeno?
 

Io alla commissione europea ho scritto per dire che l'obiettivo è fare in modo che queste persone possano vivere dignitosamente e in modo libero nel loro Paese. Rimuovere le cause della fuga: un progetto di lungo termine, ma da avviare subito con pressioni economiche, politiche e strumenti giuridici. Poi bisogna organizzare la protezione nei paesi vicini a casa loro. Non costruire mega campi profughi nelle tende, in mezzo al deserto, che significa abbandonarli; invece bisogna creare posti lavoro, borse di studio, formazione professionale in quei Paesi. Ad esempio in Uganda si stanno accogliendo migliaia di profughi e rifugiati senza creare mega campi, ma inserendoli nel contesto sociale. Serve una cooperazione che arrivi direttamente ai rifugiati e non sparisca nei rivoli delle tasche dei potenti. Serve il corridoio umanitario fatto con le organizzazioni che selezionino chi ha bisogno veramente di una protezione internazionale.  Per fare venire i profughi e i migranti legalmente in aereo, con 450 dollari e non con 5mila come devono pagare oggi.

Come le arrivò quella prima telefonata dal barcone, come è iniziata la sua storia di prete che aiuta i migranti? Il suo libro comincia da Lampedusa…

Nel 1996 arrivò la prima telefonata: da persone che mi conoscevano e sapevano che aiutavo i rifugiati. Quando hanno ricevuto la prima chiamata di aiuto l'hanno subito girata a me. E io ho segnalato alla guardia costiera. Dopo quella tragedia, che non viene abbastanza ricordata, poi ci fu quella nel 2003. Allora dei profughi, trattenuti a lungo nei centri di detenzione gestiti da Gheddafi, una volta usciti da lì, hanno preso i barconi e, alle 3 di notte, a maggio, mi chiamarono: gridavano 'aiuto, aiuto' ed erano in oltre 300 nel barcone. Segnalai la cosa alla guardia costiera.

Che sensazione ha quando dopo una telefonata come quella lei viene a sapere che c'è stato un naufragio e ci sono stati morti?
 

Per fortuna ho contribuito in questi anni a salvare più di 150 mila vite umane. Raramente è accaduto che chi mi ha chiamato non ce l'abbia fatta. Il 14 gennaio scorso però purtroppo hanno chiamato da un barcone 14 persone, ma sono sopravvissuti solo in 4. E' devastante quando accade: poco prima hai parlato con loro e poi non ci sono più.

Quali sono le prime parole che le dice chi la chiama dal mare per lanciare un sos?
 

Mi gridano 'aiutateci, stiamo morendo', donne, uomini e bambini che urlano disperati. Voci che non possono lasciare indifferenti chi le ascolta.

Time ha detto che lei è una delle 100 persone più influenti nel mondo? Come si trova in questa definizione?
 

Se fosse reale, sarei ascoltato da tutti e avrei ottenuto più risultati. Ma se questo riconoscimento aiuterà a farmi ascoltare ben venga

Nel 2006 ha fondato l'agenzia non profit 'Habeshia', dal nome della zona tra Eritrea ed Etiopia da cui provengono i profughi. Che cosa fa Habeshia?
 

 E' la voce di chi non ha voce, denuncia le violazioni dei diritti umani e sensibilizza istituzioni e opinione pubblica e fa assistenza: abbiamo progetti e borse di studio per i giovani in particolare in Africa, per permettere loro di avere un futuro migliore a casa loro. Noi ci interfacciamo con la Commissione europea e con parlamentari nazionali ed europei di forze politiche diverse. Non siamo legati a un partito: facciamo appello a tutti.

Lei scriverebbe una lettera al presidente Trump? Cosa gli direbbe  o gli farebbe vedere o ascoltare per fargli cambiare idea sui rifugiati e i migranti?

Gli scriverei per dirgli che non servono muri ma ponti, ammesso che possa ascoltare le mie parole. E gli direi che i messicani o le persone del sud America che lui vuole fermare bisogna invogliarli a rimanere nei loro paesi, rimuovendo la causa che li spinge a nord, cioè la povertà e l'ingiustizia  e lo sfruttamento. Fare i muri è prendersela con i più deboli, anziché proteggerli. Bisogna prendersela con chi li costringe alla fuga. Il muro Trump lo faccia contro i potenti che si approfittano, non contro i più disperati e poveri. Trump dovrebbe andare personalmente al confine col Messico, a vedere le croci di chi è morto o a incontrare i familiari di chi non ce l' ha fatta e di chi spera di farcela al confine fra Messico e Usa. Se non si conoscono le storie personali, da lontano, con una certa freddezza si possono prendere certe decisioni. Ma ascoltare direttamente una persona in carne e ossa e' diverso.
Ho fatto ascoltare quelle voci varie volte, consegnai dei video di perseguitati in Libia, sia al commissario per i diritti umani della Ue sia ad altri commissari, che hanno constatato cosa accadeva in Libia. E dopo averle ascoltate ci hanno dato ragione di ciò che denunciavamo.