Milano, 29 ott. (LaPresse) – I giudici dell’appello bis sul caso Mediaset hanno condannato Silvio Berlusconi a due anni di interdizione dai pubblici uffici perché hanno ritenuto che “il ruolo pubblicamente assunto dall’imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull’economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta”. Per questo hanno ritenuto che “la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici debba essere commisurata all’oggettiva gravità dei fatti contestati e quindi non possa attestarsi sul minimo della pena” come chiesto dai legali del Cavaliere, che avevano chiesto solo un anno di interdizione.
I giudici dell’appello bis sul caso Mediaset, nelle motivazioni depositate oggi, sostengono che “in particolare la sentenza ha definitivamente accertato che Berlusconi è stato l’ideatore e l’organizzatore negli anni ’80 della galassia di società estere, alcune delle quali occulte, colletrici di fondi neri, per quanto qui interessa, apparenti intermediarie dell’acquisto dei diritti televisivi – precisano i giudici – lo stesso Berlusconi ha continuato ad avvantaggiarsi del medesimo meccanismo anche dopo la quotazione in Borsa di Mediaset nel 1994, pur essendo parzialmente modificate le società intermediarie, in particolare con la già citata costituzione di Ims, avvalendosi sempre in collaborazione dei medesimi soggetti a lui molto vicini: Lorenzano e Bernasconi, quest’ultimo finche in vita; tant’è vero che in quel periodo Belusconi aveva continuato a partecipare alle riunioni per ‘decidere le strategie del gruppo’”.
I giudici ribadiscono inoltre che il Cavaliere avrebbe sempre continuato a creare fondi neri anche dopo la quotazione in Borsa di Mediaset del 1994. “Sotto il profilo soggettivo va valutato che gli accertamenti contenuti nella sentenza della Corte d’Appello, divenuta definitiva ad eccezione del capo qui esaminato – scrive il collegio presieduto da Arturo Soprano – dimostrano la particolare intensità del dolo dell’imputato nella commissione del reato contestato e perseveranza in esso”.