Lodo Mondadori, tutte le tappe della guerra di Segrate

Roma, 27 giu. (LaPresse) – Si chiuderà forse prima dell’estate la meglio conosciuta guerra di Segrate, che dura da oltre 20 anni. Ecco tutte le tappe giudiziarie che hanno portato il Lodo Mondadori all’ultimo grado di giudizio a cui è stato dato il via questa mattina in corte di Cassazione.

L’INIZIO – La vicenda iniziò alla fine degli anni Ottanta, quando Fininvest, CIR e un terzo gruppo guidato dalla famiglia di imprenditori Formenton controllavano ciascuno circa un terzo delle azioni della casa editrice Mondadori. Nel 1988 i Formenton avevano deciso di cedere la propria parte delle azioni, e De Benedetti li convinse a firmare un pre-contratto secondo il quale entro la fine del 1991 le loro azioni sarebbero passate al gruppo CIR. Nel 1989 i Formenton cambiarono idea e vendettero le proprie azioni a Fininvest; il 25 settembre 1990 Silvio Berlusconi diventò così presidente del gruppo Mondadori.

L’ARBITRATO – Patron De Benedetti in accordo con i Formenton decise di ricorrere all’arbitrato di tre giudici (tra i quali uno a testa scelto da De Benedetti e dai Formenton, e uno scelto dalla Corte di Cassazione), per stabilire se la cessione delle azioni a Berlusconi fosse stata legale e che non avesse violato il pre-contratto firmato dalla famiglia Formenton. L’arbitrato diede ragione a De Benedetti, ma i Formenton impugnarono a loro volta il verdetto dell’arbitrato (il cosiddetto ‘lodo’, in termini giuridici) davanti alla Corte d’Appello di Roma, che stabilì che a decidere dovesse essere la prima sezione civile del Tribunale (quella che si occupa del diritto cosiddetto ‘della persona’, cioè di separazioni, interdizioni, tutele e risarcimenti vari). La prima Sezione civile era presieduta dai giudici Valente, Paolini e Metta, e il 24 gennaio 1991 diede ragione ai Formenton – e quindi indirettamente a Berlusconi, che rimase a capo della Mondadori.

LA CORRUZIONE – Nel 1995 la procura di Milano scoprì però che ai tempi della sentenza della prima Sezione Civile uno dei giudici che la presiedeva, Vittorio Metta, aveva ricevuto più di un miliardo di lire da Cesare Previti, uno degli avvocati del gruppo Fininvest e amico intimo di Berlusconi, tramite un conto corrente riconducibile alla società offshore All Iberian, controllata da Berlusconi. Metta avrebbe poi usato quei soldi per acquistare un appartamento, e in seguito aveva anche iniziato a collaborare con lo studio di Previti; i giudici di Milano gli chiesero conto della provenienza di quei soldi, e Metta dichiarò che erano parte di un’eredità recentemente acquisita.

CASSAZIONE – Nel 2007 la Corte di Cassazione decise di condannare Previti e altri due avvocati Fininvest a un anno e mezzo di reclusione per corruzione giudiziaria, e Vittorio Metta a due anni e otto mesi; Berlusconi venne prescritto già nel 2001 perchè il suo coinvolgimento nella vicenda era stato accertato fino al 1991, a differenza degli altri imputati, per i quali era continuato fino al 1992.

DAL PENALE AL CIVILE – Nel 2004, su richiesta di CIR, si aprì a Milano un contenzioso civile per quantificare il danno economico subìto da CIR per la mancata acquisizione di Mondadori. Il 3 ottobre 2009 il Tribunale stabilì che la Fininvest doveva versare a CIR circa 750 milioni di euro, sulla base della condanna definitiva ricevuta da Previti, Metta e le altre persone coinvolte. Nei processi civili le sentenze sono immediatamente esecutive, non bisogna aspettare l’ultimo grado di giudizio: eventualmente si torna indietro. Nel 2010 però la Corte di Appello di Milano rilevò che Mesiano aveva emesso la sentenza senza aver interpellato nessun consulente tecnico; venne quindi formata una commissione di tre esperti, che ricalcolò al ribasso il risarcimento, sostenendo che ci fu un errore di calcolo. La Corte di Milano approvò la modifica richiesta dalla commissione, e Fininvest fu quindi condannata a pagare 540 milioni di euro, che salirono però a 560 con gli interessi; in tutto 190 milioni in meno rispetto alla sentenza del 2009.

DI NUOVO IN CASSAZIONE – Nel 2011 Fininvest presentò un esposto al Ministero della Giustizia provando a spiegare che il risarcimento non aveva senso, perchè un principio della Corte di Cassazione pena citato dalla Corte di Appello era stato male interpretato, e quindi il verdetto non aveva base giuridica.