Roma, 6 mag. (LaPresse) – Giulio Andreotti, morto questa mattina nella sua casa romana, era presidente del Consiglio quando l’Italia venne scossa prima dal sequestro e poi dalla morte di Aldo Moro. Il 16 maggio del 1978, alle 9.03 in via Fani a Roma, un commando delle Brigate rosse tende un agguato al presidente della Dc, che è appena uscito di casa e sta andando alla Camera accompagnato da cinque uomini di scorta. I brigatisti fanno strage delle guardie del corpo, poi rapiscono Moro e si dileguano. In Parlamento Giulio Andreotti doveva presentare il suo nuovo governo: un monocolore Dc con l’appoggio, per la prima volta, dei comunisti. E Moro ne era stato l’artefice principale.
Si fa tutto in fretta: in serata il governo ottiene la fiducia a larghissima maggioranza. Il ruolo e l’atteggiamento di Andreotti in quei 55 giorni fu visto poi sempre in seguito quantomeno in maniera controversa. Andreotti fu in quell’occasione infatti il capofila della linea della fermezza, quella che non voleva in alcun modo dialogare con gli uomini delle Brigate rosse, insieme a Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno. La sua posizione venne criticata dallo stesso Moro che nel suo memoriale dalla prigionia gli riservò parole crudissime: “Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera. Non è questa una colpa – scrive Moro rivolgendosi direttamente all’allora presidente del Consiglio – si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni, grigi ma pieni di fervore. Ebbene onorevole Andreotti è proprio questo che le manca. Le manca proprio il fervore umano. Quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno senza riserve i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è tra questi”.
Non era solo Andreotti a non volere la trattativa con le Br. Per la linea dura era buona parte della Dc, insieme a Pci e repubblicani. Socialisti, radicali, Lotta continua erano invece per la trattativa. Le Br chiesero inizialmente la liberazione di 13 detenuti. All’interno della Dc fu Amintore Fanfani a suggerire al Quirinale di concedere la grazia a una terrorista detenuta e gravemente malata. La mattina del 9 maggio la direzione della Dc si apprestava ad approvare una risoluzione che dava il via libera a un’operazione del genere, quando, nel corso della riunione, arrivò la notizia della morte di Moro. Le Brigate rosse lo avevano ucciso con una raffica di colpi al cuore.
Il cadavere del presidente della Dc fu infilato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Michelangelo Caetani, una piccola strada nel cuore della vecchia Roma, a un passo da via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e non lontano da piazza del Gesù, sede della Dc. Quel giorno la famiglia diffuse un comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.
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