Di Chiara Battaglia

Ferrara, 9 ott. (LaPresse) – “È veramente un campo di battaglia” quello in cui si opera nei Paesi colpiti dall’Ebola, nell’Africa occidentale, “all’inizio della mia permanenza in Liberia entravamo nelle sale ogni quattro ore per contare i morti”. A parlare è Massimo Galeotti, infermiere di Medici senza frontiere (Msf) tornato da poco dalla Liberia. In due mesi ha lavorato in ospedali che si occupano di Ebola in Guinea, Sierra Leone e Liberia. “L’episodio che mi è rimasto più impresso? In Liberia il giorno che sono partito sono andato a salutare i pazienti e uno di loro, un uomo di circa 40 anni, mi ha ringraziato per non avere mai avuto paura di toccarlo durante la permanenza. All’interno della struttura i pazienti stessi non si toccano fra loro e il contatto con i familiari non c’è visto che stanno in isolamento, invece a me quando entravo piaceva lasciare un segno tangibile, anche solo una carezza o un solletico, sempre con i guanti si intende”, racconta Galeotti a LaPresse. Galeotti, il cui incarico si definisce tecnicamente ‘Ebola treatment center responsible’, è stato prima circa quattro settimane in Guinea a Gueckedou, poi a fine luglio è andato in Sierra Leone a Kailahun per circa 10 giorni e infine ha lavorato in Liberia a Faya, vicino al confine con Guinea e Sierra Leone. Adesso ha in programma di ripartire: fra tre settimane tornerà in Sierra Leone.

COME SONO FATTI GLI OSPEDALI DI MSF PER L’EBOLA? La struttura degli ospedali è sempre di legno e plastica, materiali che troviamo sul luogo e non dobbiamo portare dall’Europa, così alla fine possiamo bruciare tutto evitando di lasciare rischi di contagio, e quella struttura non viene usata per altri scopi. In pratica l’ospedale è composto da diverse tende: una è il triage, una specie di accettazione, mentre nelle altre ci sono i pazienti. Ci sono due reparti: quello dei casi sospetti e quello dei casi confermati. Nel reparto casi sospetti ci sono tutti quelli che aspettano di avere il risultato, quindi fra di loro ci sono sia persone positive che non lo sanno ancora sia altre negative; per questo, durante le poche ore che restano in questa stanza, diciamo loro di non avere contatti fra di loro e di non toccare oggetti e i letti sono posizionati a due metri di distanza gli uni dagli altri. Nel reparto casi confermati stanno invece tutte le persone alle quali è stata già diagnosticata l’Ebola. Naturalmente medici e infermieri entrano nelle tende coperti perché non deve esserci alcun contatto con la pelle del malato, per evitare contagi.

La capienza cambia da struttura a struttura: per esempio in Guinea, nell’ospedale di Msf a Gueckedou, c’erano 50 posti; in Sierra Leone a Kailahun c’erano 80 posti; mentre in Liberia, dal momento che quando siamo arrivati l’ospedale non c’era ancora e abbiamo dovuto metterlo in piedi, all’inizio avevamo 30 posti, ma in una settimana siamo arrivati a ospitare 138 pazienti. In Liberia c’erano cinque tende per i casi confermati e quattro per quelli sospetti e il picco peggiore lo abbiamo raggiunto la prima settimana di agosto, quando c’erano circa 10 morti al giorno.

QUAL E’ LA GIORNATA TIPO PER CHI LAVORA IN UN OSPEDALE MSF DI EBOLA? La mia giornata tipo, come responsabile del centro di isolamento, comincia alle 7 del mattino. Prima delle 7 mi trovo in ospedale per assistere al passaggio di consegne fra il turno della notte e quello del giorno: ci diciamo quanti pazienti sono stati ammessi durante la notte, in quale tenda sono stati messi e da dove provengono, chiediamo quanti pazienti sono morti e quanti si trovano in condizioni critiche. Inoltre decidiamo cosa si dovrà fare durante le entrate della giornata nel reparto isolamento, che avvengono ogni due ore. Alle 8 si fa la terapia con gli antibiotici, ci si occupa della reidratazione, si danno vitamine e antimalarico. Alle 10 c’è la colazione e i malati vanno imboccati perché sono deboli; inoltre i pazienti vanno lavati. Alle 12 si portano il pranzo ed eventuali terapie particolari, per esempio per il vomito e la diarrea. Alle 14 si entra ancora una volta nelle tende per rilevare i parametri vitali, come la temperatura corporea. Alle 16 nuovamente terapia, alle 18 la cena, alle 20 di nuovo la rilevazione dei parametri vitali e alle 22 un’altra terapia. In tutto questo bisogna occuparsi degli eventuali casi nuovi che arrivano.

COME SI TROVANO LE PERSONE DA CURARE? SONO LORO CHE VENGONO? CHE PROCEDURA SI SEGUE? Dipende dai posti. In Liberia sono i pazienti che vengono da noi: arrivano nella tenda triage, si fermano all’ingresso e c’è una persona addetta che viene ad avvisarci che qualcuno vuole farsi visitare.

Diversa la situazione in Guinea, dove c’è un sistema previsto dal governo in collaborazione con Msf e siamo noi che andiamo nei villaggi. Funziona così: quando il capo villaggio sa che c’è qualcuno che presenta sintomi sospetti contatta le autorità, che a loro volta ci telefonano. Noi andiamo sul posto con due ambulanze, una con il personale medico e l’altra vuota. Ci sono due possibilità.

Se la persona può camminare, non importa avere le tute perché ci manteniamo a due metri di distanza, appoggiamo il termometro sul tavolo e chiediamo al paziente di misurarsi la temperatura, poi facciamo delle domande per capire per esempio se ha avuto contatti con persone malate o è stato a un funerale di possibili contagiati; nel caso in cui ci sembri un sospetto caso di Ebola il paziente sale in ambulanza da solo e andiamo in ospedale. Se invece la persona segnalata non riesce a camminare, i nostri operatori devono arrivare vestiti con le tute di protezione in modo da assistere il paziente. Si parla inglese e francese, ma si è sempre affiancati da chi parla il dialetto locale. Una volta fatte le analisi cliniche, i casi che riteniamo probabili li trasportiamo in ambulanza in ospedale, dove si provvede a effettuare il test per l’Ebola.

COME SONO FATTE LE TUTE PROTETTIVE? Le tute sono di un materiale plastico impermeabile. L’uniforme di protezione include un copricapo che arriva fino alle scapole, una mascherina simile a quella che si usa per andare sott’acqua, dei guanti, degli stivali di gomma, e sopra la tuta vera e propria si indossa ancora un grembiule di plastica spessa. Usare queste tute è una vera tortura, non si possono indossare per più di 45 minuti o un’ora al massimo perché si suda molto. Si perdono molti liquidi, la mascherina si annebbia e non vedere bene rischia di diventare pericoloso quando ci si trova dentro le tende con i pazienti: pensa se dovessi inciampare e cadere e si dovesse rompere la tuta.

IN LIBERIA L’OSPEDALE DI MEDICI SENZA FRONTIERE PER L’EBOLA E’ STATO CREATO DA CAPO, COME SI FA? In Liberia si trattava di una ‘Missione esplorativa’ come si dice in gergo. C’era un ospedale del governo, piccolino, avevamo sentito dire che c’erano molti casi e allora abbiamo proposto a Medici senza frontiere la missione esplorativa, cioè di andare sul posto con un team ridotto per valutare la situazione. Eravamo in quattro: io come infermiere, un capo progetto, un logista e un esperto in ‘water and sanitation’, cioè la persona che per esempio deve mescolare il cloro con l’acqua. C’erano molte lacune, per esempio non tutti usavano la protezione, i pazienti potevano uscire perché l’ospedale non era recintato quindi di notte i pazienti andavano fuori dalla struttura e tornavano a piedi nel villaggio. Dunque siamo partiti proprio da zero, dalla costruzione dell’ospedale al reclutamento e gestione del personale, al training dello staff locale. Così in una settimana la struttura è stata molto ampliata e abbiamo raggiunto il limite massimo passando da 30 a 138 pazienti.

QUALI SONO LE DIFFICOLTA’ PRINCIPALI SU CUI SI POTREBBE INTERVENIRE. Servono più volontari stranieri, più personale formato. Conosco persone che qui in Italia hanno chiesto aspettativa negli ospedali, sia medici che infermieri, ma non la ottengono e non possono partire. Nell’ospedale di Msf in Guinea eravamo 22 stranieri, compresi i logisti, e 110 locali; in Sierra Leone eravamo 25 dello staff internazionale, di cui due italiani, e 100 locali; in Liberia invece i locali erano solo 30.

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