Stanley (Isole Falkland), 10 mar. (LaPresse/AP) – Oggi e domani si aprono le urne sulle isole Falkland-Malvinas per il referendum sulla sovranità sostenuto dal governo britannico. Il quesito mira a chiedere ai residenti se vogliono che l’arcipelago che sorge al largo delle coste dell’Argentina continui a rimanere sotto amministrazione di Londra. Per la precisione la domanda sarà: “Desidera che le isole mantengano il loro status politico attuale, come territorio oltremare britannico?”.
Il governo locale ha mobilitato un grande sforzo per far sì che la maggior parte dei 1.650 elettori registrati si rechino alle urne, preparando fuoristrada, imbarcazioni e idrovolanti per permettere a chi vive nelle zone più remote di esprimere la propria preferenza. Sul posto sono giunti osservatori internazionali da Canada, Messico, Usa, Paraguay, Uruguay, Cile e Nuova Zelanda. La previsione è che la maggior parte dei residenti voti a favore del governo e della protezione britannica, un risultato che gli abitanti sperano ponga la propria volontà di auto-determinazione al centro di qualsiasi rivendicazione argentina sulle isole in futuro.
“Sovranità” è un termine che riguarda più un territorio che il suo popolo. Ed è la parola che spesso l’Argentina invoca, rivendicando appunto il controllo dell’arcipelago, occupato dal Regno Unito quasi due secoli fa. Ieri sera il ministero degli Esteri di Buenos Aires ha ribadito la posizione del governo, secondo cui gli isolani siano in realtà una popolazione “impiantata” e ha sottolineato ancora una volta che le risoluzioni dell’Onu chiedono a Londra di risolvere la disputa in maniera bilaterale, “tenendo conto degli interessi, e non dei desideri, degli abitanti delle isole”. Dal canto suo, il Regno Unito preferisce parlare di “auto-determinazione” della popolazione.
Il Regno Unito cerca su questa disputa l’appoggio degli Usa, e vorrebbe che Washington riconoscesse il diritto di scelta degli isolani. Un tema su cui tuttavia il segretario di Stato americano John Kerry, nella sua recente visita a Londra, non ha ceduto. “Non commenterò, né lo farà il presidente, un referendum che deve ancora tenersi”, ha affermato Kerry che poi ha aggiunto: “La nostra posizione sulle Falkland non è cambiata. Gli Usa riconoscono la amministrazione de facto del Regno Unito, ma non prendono posizione sulle rivendicazione di sovranità delle parti”.
Gli Stati Uniti hanno fortemente appoggiato l’auto-determinazione nel caso del caso del Sud Sudan, in vista del referendum che si tenne nel 2011 e che mostrò che il 99% degli abitanti dell’area volevano l’indipendenza dal governo di Karthum. E, in seguito alle rivolte della primavera araba, il presidente Barack Obama ha più volte ribadito che “gli Usa accolgono con favore il cambiamento che porta avanti la auto-determinazione” dei popoli di Egitto e Tunisia. Ma in merito alla questione Falkland-Malvinas, per cui Argentina e Regno Unito hanno combattuto una guerra nel 1982, Washington ha sempre cercato di non schierarsi.
Il governo delle isole Falkland è una democrazia diretta e in gran parte si auto-governa. Tuttavia, il Regno Unito gestisce la sua Difesa e sui Affari esteri, e il rappresentante della regina ha potere di veto sulle sue decisioni. Fino ad ora, gli abitanti dell’arcipelago hanno deciso di mantenere molto ristretta la popolazione permanente, rendendo difficile l’ottenimento dello status formale di “isolani”. Escludendo la presenza militare britannica e i contractor civili, la popolazione contata nel censimento dello scorso anno è di appena 2.563 persone. E solo 1.973 hanno lo status di isolani. Le regole del referendum escludono dal voto chiunque non abbia un passaporto britannico e non ha vissuto nelle isole negli ultimi dodici mesi. L’elettorato si riduce però a 1.650 aventi diritto, considerando i maggiorenni.
Non ci sono stati sondaggi in vista dell’apertura delle urne, ma tutte le persone sentite da Associated Press hanno detto che voteranno per mantenere la situazione attuale. Subito dopo il voto, i deputati locali Sharon Halford e Mike Summers dovrebbero volare in Usa per far pressioni sui funzionari dell’amministrazione Obama e i membri del Congresso.
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