Pensano a tutte le donne. Ed è così che, tra organizzazione e pianificazione in famiglia, il carico mentale cresce mentre rallenta la voglia di fare figli. Un’analisi delle università di Padova, Bologna e Milano Bicocca – condotta nell’ambito del progetto ‘Forties’, finanziata dal Pnrr e dedicata alla maternità (specialmente in età avanzata) – racconta del legame che si crea tra il lavoro mentale delle donne dedicato a tenere in piedi una famiglia, il sostegno ricevuto dal partner, e la volontà di avere figli.
Secondo lo studio – curato dalle ricercatrici Elena Vettoretto, Alessandra Minello, Livia Ortensi, Francesca Tosi – il calo di natalità è legato quindi alla maternità, ed è presente soprattutto quando il partner non offre supporto alla pari nell’aiutare sulla quotidianità della famiglia. Si tratta di una condizione – viene spiegato – che pesa sul benessere femminile e che per esempio influisce negativamente sulla propensione ad avere un secondo figlio.
L’assunto di partenza è che sono “soprattutto le madri a farsi carico del lavoro mentale legato alla gestione quotidiana della famiglia e questo influenza in negativo la fecondità. Viceversa, quando il partner è percepito come coinvolto e responsabile nella gestione domestica, la donna è più propensa ad avere un altro figlio”.
Naturalmente – rileva lo studio – bisogna tenere in considerazione che “non si tratta solo delle attività pratiche di cura o delle faccende domestiche ma dell’insieme invisibile e costante di pensieri, decisioni e preoccupazioni che assorbono energie e risorse“. Cose che sono “appunto in maggioranza appannaggio delle donne”. Tradotto, si potrebbe dire, pensano a tutto le donne.
La ricerca ha esplorato un campione di 2.416 madri italiane con un figlio, partner in coppie eterosessuali. Le madri sono state suddivise in due gruppi, sulla base della loro età alla nascita del primo figlio, se over o under 35. “Il lavoro mentale – spiega Vettoretto, dell’università di Padova – comprende l’insieme delle attività cognitive, organizzative ed emotive che garantiscono il funzionamento quotidiano della vita domestica e familiare, dalla gestione di scuola e tempo libero alle visite pediatriche, dall’aiutare nei compiti alle incombenze domestiche, dai compleanni alle visite ai parenti. Sebbene spesso invisibile e difficile da quantificare, questo tipo di impegno assorbe risorse psicologiche significative”. A differenza del lavoro esecutivo, il lavoro mentale – osserva la ricercatrice – “non coincide con l’azione materiale, ma con tutto ciò che la precede: pensare, anticipare, ricordare, decidere, preoccuparsi. Si tratta di una responsabilità che resta attiva anche quando non si compie nulla di visibile, ma che implica comunque la gestione costante della vita familiare“.
Tra le diverse modalità di analisi – si rileva – alle madri è stato chiesto “non solo quanto tempo dedicassero personalmente al lavoro mentale ma anche quanto percepissero coinvolto, sullo stesso piano, il proprio partner“. Ebbene il lavoro mentale è risultato “nettamente più alto per le madri rispetto a quanto esse percepiscono più basso l’impegno mentale dei loro partner. Questo vale per entrambi i gruppi di età”. Tra le madri più giovani (20-34 anni) il punteggio medio del proprio lavoro mentale è vicino al valore percepito del partner; ma il divario si amplia tra le madri over 35.
Oltre a questo viene anche dimostrato che “il carico mentale è legato alla natalità“. I risultati dei modelli statistici, che tengono conto delle caratteristiche sociodemografiche delle madri, mostrano con chiarezza che “il lavoro mentale è correlato con le intenzioni di avere altri figli, soprattutto per le donne che hanno avuto il primo figlio dopo i 35 anni. In particolare, una percezione di maggiore carico mentale materno è associata a una riduzione” dell’intenzione di avere ancora figli.
Questa associazione è “più marcata tra le madri over 35 rispetto alle under 35″. Al contrario, “percepire un partner coinvolto, sia sul piano emotivo che su quello organizzativo, è associato a una maggiore intenzione ad avere altri figli“. Il lavoro mentale del padre, come percepito dalla madre, ha infatti “un’associazione positiva con l’intenzione riproduttiva, con un effetto leggermente più forte tra le madri over 35 rispetto a quelle più giovani”.
“Emerge con chiarezza – conclude Vettoretto – che per le donne il sovraccarico emotivo agisce da freno, mentre ciò che le incoraggia è la percezione di un partner coinvolto sul piano emotivo e organizzativo. Il lavoro mentale è non solo una questione di equità ma anche a tutti gli effetti una dimensione del benessere materno, oltre che un elemento significativo per comprendere le scelte riproduttive, in particolare nelle fasce di età più avanzate. Il carico mentale gioca un ruolo in particolare per chi arriva tardivamente alla maternità. Queste donne si trovano spesso a dover trovare un equilibrio tra il ruolo genitoriale e carriere già avviate, ma anche a fare i conti con aspettative elevate e meno energie”. Una situazione che “può ridurre la disponibilità emotiva e pratica ad affrontare nuovamente la genitorialità”.
Tra i suggerimenti forniti dallo studio, il concetto di un cambiamento nelle “politiche di sostegno alla genitorialità” che “non possono limitarsi a incentivare la natalità”. Bisognerebbe invece “promuovere una più equa redistribuzione del lavoro domestico e delle responsabilità gestionali, superando il modello in cui uno dei partner pensa e coordina mentre l’altro esegue. Questo favorisce un equilibrio familiare più sostenibile e rispettoso del benessere di entrambi i genitori”.

