Si concentra sulla proposta di riforma della Corte Conti l’analisi di Stefano Glinianski, consigliere della Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti, pubblicata oggi su ‘Il Sole 24 ore’. In sostanza, il ragionamento, partendo da una distinzione tra discrezionalità politica e discrezionalità giudiziaria, invita ad andare oltre il principio di autoreferenzialità prodotto dagli effetti della stessa riforma. E, quindi, spinge nel cercare una ‘verità equilibrata’ affinché si possa avviare una riflessione che tenga insieme le differenti pulsioni al “mutamento“. Un percorso che per esempio preveda il coinvolgimento della magistratura da parte della politica, in un dialogo tra istituzioni.
“La recente proposta di riforma delle funzioni e dell’organizzazione della Corte dei Conti ripropone il delicato tema del rapporto politica-giustizia e del mai sopito dibattito sui limiti della discrezionalità giudiziaria – scrive nell’incipit Glinianski – e le ragioni di una insofferenza verso una giustizia ritenuta invasiva di spazi altrui e, conseguentemente, sul se e in che misura può spingersi la discrezionalità politica nell’attuare processi riformatori del sistema giudiziario, prodromici a circoscriverne il campo di azione. È evidente che la complessità di un tema cosi rilevante lo rende di non facile soluzione. Tuttavia, un approcciarsi laicamente verso lo stesso può di certo contribuire a determinarne una sua analisi il più possibile oggettiva, senza il rischio di essere accusati di partigianeria a tutela di specifici interessi”.
Per Glinianski “una prima considerazione attiene alla profonda eterogeneità tra discrezionalità politica e discrezionalità giudiziaria. La prima, più ampia, è orientata ideologicamente, fisiologicamente impregnata di soggettivismo, purché nel rispetto dei principi valoriali della nostra Costituzione che ne rappresentano altresì l’argine invalicabile. La discrezionalità giudiziaria, meno estesa, è oggettivamente da circoscrivere nei confini dell’ordinamento giuridico che, pur nella sua complessità tecnica e valoriale, ne rappresenta il faro dal quale il giudice deve trarre la regola decisoria, indipendentemente da convincimenti ideologici”.
“Se, dunque, l’ampiezza della discrezionalità politica rispetto a quella giudiziaria emerge in modo così palese – continua Glinianski – ciò nell’immediato potrebbe indurre a ritenere legittimo un giustificato sbilanciamento in favore delle scelte del decisore politico e una mera passiva accettazione da parte del sistema giudiziario di quanto allo stesso prospettato o il rischio di un inevitabile scontro tra istituzioni. Nel solco prospettico così delineato, allora c’è da chiedersi cosa potrebbe fungere da elemento di stabilizzazione di un tale fenomeno sociale, prima ancora che ordinamentale, storicamente evidenziante un complesso e precario equilibrio tra poteri dello Stato“.
Secondo Glinianski “la storia del pensiero insegna che non esiste una verità assoluta ma una verità a cui tendere e la tensione verso una verità se non assoluta, quanto meno equilibrata, può raggiungersi solo con la ragionevolezza che presuppone però il superamento della autoreferenzialità di tutte le parti coinvolte nella ricerca della stessa”.
A questo punto Glinianski pensa per esempio alla possibilità che la magistratura possa offrire delle “soluzioni alternative o migliorative di quanto ipotizzato in disegni di legge in itinere” come per esempio “esplicitare ai propri interlocutori le importanti scelte organizzative adottate per uniformare i pareri delle sezioni regionali, la realizzazione di fondamentali applicazioni come la Centrale Pareri, evidenziare le insidie di una estensione del controllo preventivo agli enti locali, l’importanza della diffusione e della vicinanza sul territorio delle sezioni regionali della magistratura contabile e di come un accorpamento delle funzioni rischia di rendere più fumosa la separazione tra il controllo e la giurisdizione”.
Ma – avverte Glinianski – “un superamento della autoreferenzialità dovrà necessariamente esserci anche da parte del decisore politico, che non può prescindere, nel momento in cui prospetta un mutamento cosi profondo come quello contenuto nella legge delega di riforma, da un coinvolgimento reale dei destinatari della stessa. Una partecipazione sostanziale dei magistrati contabili, in quanto ogni percorso riformatore risultato poi vincente è sempre stato la risultante di una condivisione non formale e perché, pur nella eterogeneità di alcune posizioni, solo un dialogo tra istituzioni, senza retorica di parte, può far emergere le tante conquiste di civiltà giuridica acquisite nel tempo che rischierebbero, viceversa, di essere cancellate con un tratto di penna, senza quella necessaria ponderazione che un tale cambiamento impone”.