“La ripresa non cancella il rischio di un’emergenza sociale: se il lavoro povero e le condizioni di precarietà crescono, la tenuta sociale del paese è fortemente a rischio“. Così il ministro del lavoro Andrea Orlando, introducendo il documento finale elaborato dal Gruppo di lavoro ‘Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa’ sintetizza la gravità di una situazione che rischia di trasformarsi in una vera e propria emergenza sociale. Il documento presentato oggi a Roma evidenzia infatti che In Italia, “un quarto dei lavoratori italiani ha una retribuzione individuale bassa – cioè, inferiore al 60% della mediana – e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà, ossia vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana”. Lavorare non sembra più essere quindi un antidoto alla povertà.
Cinque, dunque, le proposte fondamentali avanzate dal Gruppo di lavoro per fare fronte alla questione, in attesa di interventi più profondi e strutturali. Si parte dalla annosa questione dei minimi salari adeguati, condizione “necessaria ma non sufficiente per combattere la povertà lavorativa tra i lavoratori dipendenti”. A fronte delle due opzioni attualmente oggetto del dibattito pubblico italiano – estendere i contratti collettivi principali a tutti i lavoratori o introdurre un salario minimo per legge – il gruppo di lavoro ne avanza una terza: introdurre in via sperimentale un salario minimo per legge o delle griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori”. Opzione che, pur apportando solo “una risposta parziale e non esente da problemi e complessità”, permetterebbe di “dare una prima risposta in quei settori in cui la situazione è più urgente mentre prosegue il dibattito sullo strumento più adatto a livello nazionale”. Anche alla luce dell’attesa direttiva comunitaria sul salario minimo che, spiega Orlando, “darà le coordinate su come evitare la crescita del lavoro povero” creando un “terreno di riflessione importante” per la politica. Riflessione che – aggiunge il ministro – va fatta “rapidamente e seriamente” e coinvolge necessariamente le parti sociali, che dovranno dialogare per “dare una base al Parlamento per potersi pronunciare”.
Una volta fissato, il minimo salariale va rispettato. Per garantire che ciò accada, bisogna perciò irrobustire – ed è la seconda proposta del Gruppo di lavoro – “l’azione di vigilanza documentale, cioè basata sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alle Amministrazioni pubbliche costruendo indici di rischio a livello di impresa o settore per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate e, in caso di persistenza nel tempo, studiare strategie di intervento soft oppure guidare la vigilanza ispettiva”. Va poi introdotto uno strumento “per integrare i redditi dei lavoratori poveri, un in-work benefit, che permetterebbe di aiutare chi si trova in situazione di difficoltà economica e incentiverebbe il lavoro regolare”. Obiettivo dell’in-work benefit: “assorbire gli ’80 euro’ (ora Bonus dipendenti) e la disoccupazione parziale per arrivare a uno strumento unico, di facile accesso e coerente con il resto del sistema (in particolare, Reddito di Cittadinanza, ma anche il nuovo Assegno Unico e Universale per i Figli)”. Anche perché in Italia – specifica il gruppo di lavoro – “solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% in media europea”.
A queste iniziative, se ne affiancano altre volte ad “incentivare le imprese a pagare salari adeguati con forme di accreditamento” oppure di “name and shame per chi, al contrario, non rispetta la normativa sul lavoro”. E anche strumenti, per i lavoratori, “per aumentare la leggibilità dei Ccnl e dei vari strumenti di sostegno al reddito per assicurarsi che i lavoratori che ne hanno bisogno possano avervi effettivamente accesso”. Ugualmente importante “un’adeguata e tempestiva informazione sulle prospettive pensionistiche (la c.d. “busta arancione”) per mettere in risalto i rischi derivanti dal cumulo di situazioni di svantaggio”. Infine, un “più facile accesso ai tanti dati che le Amministrazioni pubbliche (nazionali e locali) raccolgono nell’espletamento delle loro funzioni sul modello ‘VisitINPS’ consentirebbe di promuovere la ricerca in materia e misurare l’effetto che strumenti diversi possono avere nel contrastare questo fenomeno”. E poi, conclude il Gruppo, l’indicatore di povertà lavorativa utilizzato dall’Unione europea va rivisito, perché “esclude i lavoratori con meno di sette mesi di lavoro durante l’anno e presuppone un’equa condivisione delle risorse all’interno della famiglia”. In questo modo – spiega il gruppo – si tagliano fuori quei lavoratori “che sono probabilmente tra i più esposti al rischio di povertà”.
Quella elaborata dal Gruppo di lavoro è dunque una “strategia di lotta alla povertà lavorativa” che punta su una molteplicità di strumenti “per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo efficace”. Proposte dunque che agiscano sia a livello predistributivo (cioè sui redditi di mercato) che a livello redistributivo e trasversale e che, anche se al momento sono state pensate “in senso generale e microeconomico” per supportare i “redditi individuali e famigliari”, potrebbero essere “immaginate anche a livello settoriale o locale”. A cui si dovrà affiancare però una strategia complessiva che affronti “le debolezze macroeconomiche e di politica industriale, le politiche per il lavoro (politiche attive, regolazione lavoro atipico, contrattazione) e gli investimenti in istruzione e formazione”. Anche perché, secondo l’indicatore prodotto da Eurostat, l’ufficio europeo di statistica e adottato dall’Unione europea, “in Italia il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato rispetto agli altri Stati europei: nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%”. Dato che probabilmente è stato ulteriormente peggiorato dalla pandemia – puntualizza il gruppo – esponendo “a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione”.
“Questo lavoro – ha sottolineato infatti Orlando – è utile perché non sposa assiomi ideologici, ma offre una pluralità di potenziali e possibili interventi. Non c’è un coniglio che salta fuori dal cappello, ma ci sono interventi combinati e che, prodotti nel tempo e con costanza, possono invertire la tendenza”.