E’ stato rimosso da Facebook per violazione delle sue policy, dopo centinaia, forse migliaia di segnalazioni, il gruppo Facebook ‘Mia Moglie’, dove in prevalenza uomini postavano immagini delle proprie mogli e compagne (e non solo) per darle in pasto al web, spesso senza consenso – come detto da loro stessi, che corredavano spesso le immagini con parole come ‘ignara’.
Ne abbiamo parlato con Beatrice Petrella, giornalista, podcaster e autrice esperta di temi legati all’odio online e autrice di ‘Still Online. Connessi oltre la morte: la nostra eredità digitale’. Per RaiPlay Sound ha pubblicato ‘Oltre – Un’inchiesta sull’universo incel italiano’. “L’online lascia spazio all’impunità” spiega Petrella a LaPresse. “Questi gruppi sono spesso anonimi, se si fa un giro non solo su ‘Mia moglie’ -ora bannato- ma anche su altri gruppi, sembra che ci si senta in diritto di dire tutto, anche cose tremende che nella vita vera con il proprio nome e la propria faccia non si rivendicherebbero. Internet dà da un lato libertà totale… E dall’altro libertà totale, sembra paradossale ma è così. Quando si parla di moderare questi contenuti esiste un limite da bilanciare tra questa libertà (di espressione) e contenere questi movimenti” spiega Petrella.
“Le piattaforme non hanno un vero interesse a farlo, al netto dei diritti fondamentali alla piattaforma interessa che ci sia traffico. Facebook ha interesse che le piattaforme passino tempo sulla piattaforma. Le aziende come Meta non sono no profit, hanno degli obiettivi economici”.
Cos’è la violenza online?
Ma di cosa si tratta quando si parla di ‘violenza online’? “La violenza online è quel tipo di violenza che si consuma in spazi digitali, come piattaforme come Meta, o app di messaggistica, come Whatsapp, o sui blog – spiega Petrella -. La differenza principale con altri tipi di violenza offline è che non viene ancora percepita come effettiva violenza, è come se ciò che accade su internet non interagisse con ciò che avviene fuori. Ma noi sappiamo che la violenza online ha dei risvolti sulla vita fuori dalle piattaforme, pensiamo alla diffusione di immagini senza consenso. Ci sono anche altri tipi di violenza online che vengono agiti, come il cyberbullismo, non necessariamente legati alla violenza di genere. Ma quando si parla di violenza online, ci viene subito in mente la violenza di genere perché internet è un modo molto forte per fare comunità e dove è molto facile diffondere immagini senza il consenso della persona ritratta”.
Incel: cosa significa e che tipo di violenza è (da online a offline)
Petrella si è occupata soprattutto dei gruppi Incel online. “Incel sta per ‘Involuntary celibe’. I celibi involontari sono un gruppo che vive online ma non solo all’interno della ‘manosphere’, ‘maschiosfera‘, caratterizzata da ideali misogini e violenti nei confronti delle donne, ma non solo. Gli Incel portano avanti una serie di idee perché dicono di essere celibi involontari e si sentono titolati a odiare le donne perché privano loro del sesso e delle relazioni”, ci spiega Petrella.
“Il movimento Incel è comparso sui giornali quando ci sono stati casi di violenza ma nasce molto prima: nel 2014 c’è stata una strage a Santa Barbara, in California. L’autore, Elliot Rodger, fa un testamento che lascia su Youtube e dice che ha ormai più di 20 anni, è vergine, non ha mai baciato una ragazza ‘nonostante io sia il gentiluomo supremo’ e quindi sceglie un giorno per ‘vendicarsi’ contro tutte quelle donne che a suo dire ‘non lo hanno mai considerato’. Diventa poi il più noto autore di stragi Incel”. Il caso degli Incel è ancora diverso da quello del gruppo Facebook ‘Mia Moglie’, perché si tratta di uomini che odiano le donne perché non vengono da loro ‘considerati’, ma è una forma di violenza online maschile sempre più diffusa e poco conosciuta.
I paragoni col caso di Gisèle Pelicot
La vicenda del gruppo ‘Mia Moglie’ ha diversi punti di contatto con il tragico caso francese di Gisèle Pelicot: il marito della donna, condannato, per anni e anni la ha drogata cercando online uomini pronti a stuprarla mentre lui ritraeva lei e loro, il tutto senza il suo consenso e senza che lei ne fosse consapevole per anni – anzi decenni. La donna ha scelto di comparire in video e che il suo nome venisse diffuso (era suo diritto restare anonima vista la tipologia di reati) per dare un ‘segnale’ alle altre vittime di violenza, diventando così un simbolo della lotta contro la violenza maschile sulle donne. Al momento si sta indagando su violenze simili anche nei confronti della figlia.
I punti di contatto con il caso, secondo Petrella, sono sostanzialmente tre: “Il primo è l’idea di potere illimitato sulla propria compagna. In comune c’è l’idea di poter disporre del corpo della propria moglie. Io ho il diritto di postare la tua foto anche se non lo sai, nel momento in cui stai con me sei mia, l’idea che le donne sono un oggetto di proprietà dei mariti e prima dei padri”.
“Poi c’è un altro elemento: gli uomini che prendono parte a questi gruppi e che partecipano non si sentono stupratori, non sentono di aver commesso violenza. Un’altra cosa agghiacciante nel caso Pelicot sono le giustificazioni degli uomini che la hanno stuprata e dicevano ‘pensavo fosse consenziente’, ‘mi aveva dato il permesso il marito’, ‘io sono una persona rispettabile’” dice ancora Petrella. Anche facendosi un giro su quel gruppo ora chiuso, quando il caso stava scoppiando, si diceva ‘che male c’è’, ‘è un gioco erotico’, ‘sono consenzienti’. Le foto erano invece chiaramente state scattate di nascosto e in molti casi c’era anche scritto. Di cosa stiamo parlando?”.
“Terzo elemento – spiega l’autrice – Non viene per nulla considerato il consenso della donna. Non esiste proprio il concetto che se io e te abbiamo una relazione io devo darti il consenso e posso ritirarlo in qualsiasi momento. Le donne sono oggetto di soddisfazione che gli uomini offrono ad altri uomini per vantarsi, come un’auto di lusso o qualsiasi altro bene“.
Petrella: “Non serve solo repressione ma cultura, sì all’educazione sessuo-affettiva a scuola”
Come contrastare questi fenomeni online? “Sicuramente servirebbe una normativa adeguata – dice la giornalista e podcaster – ma anche una cultura e una educazione sessuo-affettiva profonda. Dobbiamo pensare sicuramente alla gestione di questi reati, perché appunto sono reati. Ma dall’altra parte non si contrastano i reati aumentando le pene ma agendo sulla cultura. Serve un duplice lavoro, molto complesso da fare in Italia. L’educazione sessuo-affettiva nelle scuole manca completamente. Si dovrebbero dare ai bambini degli strumenti per essere adulti consapevoli, mentre quando se ne parla si parla di ‘lavaggio del cervello’ e dunque non si apre la discussione”.
“Il problema è che come società non riusciamo a capire che per evitare queste cose bisogna partire molto prima, perché sono cose che rappresentano l’estremizzazione di una società profondamente patriarcale. Per risolvere queste questioni bisogna partire molto, molto, molto prima, con i bambini”, conclude Petrella.