Roma, omicidio Gabriele di Ponto: un mistero lungo 10 anni

Roma, omicidio Gabriele di Ponto: un mistero lungo 10 anni
Gabriele Di Ponto

L’ultrà è stato ucciso, fatto a pezzi e gettato nell’Aniene nel 2015. Ora nuove dichiarazioni dei collaboratori di giustizia potrebbero aiutare a identificare i killer

Di lui si sa soltanto che è stato ucciso e fatto a pezzi. Era il 12 agosto del 2015, quando la parte di una gamba affiorò dalle acque del fiume Aniene a Roma, dopo che era rimasta impigliata nella nassa di un pescatore di anguille. Qualche giorno dopo, attraverso un tatuaggio, inciso sul polpaccio, venne dato un nome alla vittima. Si chiamava Gabriele di Ponto, era un ultrà della Lazio, vicino a Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, ucciso con un colpo di pistola il 7 agosto del 2019, con un colpo di pistola nel parco degli Acquedotti al Tuscolano. Aveva diversi precedenti per spaccio di droga e rapina e abitava nel quartiere di San Basilio al Tiburtino, una della piazze di spaccio più grandi di Roma. Secondo il medico legale che esaminò l’arto, Di Ponto prima venne ucciso e poi fatto a pezzi. Forse in una vasca da bagno con una motosega.

Verso una svolta a 10 anni dal delitto?

Ora, a 10 anni esatti dall’omicidio, le dichiarazioni ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma di alcuni collaboratori di giustizia potrebbero portare all’identificazione dei killer e di chi lo fece a pezzi per non farlo ritrovare. L’ultras si muoveva in ambienti della criminalità, tra gang di narcos albanesi e famiglie della ‘ndrangheta che controllano lo spaccio a San Basilio. La polizia non escluse che Di Ponto fosse stato rapito con la forza da un gruppo di albanesi legati alla ’ndrangheta e portato in un appartamento a San Basilio, dove fu ucciso prima di essere smembrato secondo le regole del Kanun, l’antico codice d’onore albanese risalente al Medioevo. Questo ‘sistema normativo’, non scritto e tramandato oralmente, stabilisce che il tradimento va vendicato con il sangue, e le faide familiari possono durare per generazioni. Di Ponto non era un grande trafficante, ma aveva comunque una rete di spacciatori e aveva tentato di prendere il controllo di una zona gestita da una potente cosca locale. Durante le indagini successive alla sua scomparsa, gli investigatori si scontrarono con un clima di silenzio assoluto e complicità omertosa specie nel quartiere dove viveva.

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