L’ex manager di Uber Eats, Gloria Bresciani, ha patteggiato un anno e 4 mesi con pena sospesa e 21mila euro di multa nel processo per caporalato sui rider della multinazionale del food delivery in quello che nelle chat aziendali veniva definito un “sistema per disperati”. La sentenza di patteggiamento è stata letta questa mattina in aula dalla presidente della nona sezione penale del tribunale di Milano, Mariolina Panasiti, e ha accolto l’accordo fra il difensore dell’ex manager, avvocato Domenico Aiello, e il pubblico ministero Paolo Storari che ha coordinato l’indagine della guardia di finanza. Inchiesta che portò, nella primavera del 2020, Uber in amministrazione giudiziaria, primo caso su una multinazionale della gig economy. Il patteggiamento è stato reso possibile a oltre 3 anni dall’inizio del dibattimento grazie alla riformulazione del capo d’imputazione che ha visto le condotte contestate a Bresciani anche come conseguenza di strategie e policy aziendali. Condanna a un anno e 6 mesi con interdizione dai pubblici uffici invece per il coimputato di Bresciani, accusato di false fatture, Alberto Merola. Nei confronti della società FRC srl, appaltatrice del colosso californiano che l’anno scorso ha abbandonato l’Italia e transato un indennizzo di 3,8 milioni di euro per circa 1.800 fattorini e rider durante la procedura di licenziamento collettivo, è stata disposta sentenza di non luogo a procedere perché nel frattempo l’azienda è andata in liquidazione e si è cancellata dal registro imprese. Le motivazioni saranno depositate in 90 giorni.
L’inchiesta e il successivo processo hanno svelato come i rider di Uber fossero pagati 3 euro a consegna indipendentemente dalla distanza percorsa in bicicletta. Agli atti è depositato una sorta di “contratto di lavoro” scritto a penna su un foglio di carta. I lavoratori sarebbero stati derubati delle “mance” lasciate spontaneamente dai clienti e “puniti” attraverso l’arbitraria decurtazione dei loro compensi. Venivano omessi i versamenti della ritenuta d’acconto relativa ai pagamenti e inoltre vi era l’estromissione dal circuito lavorativo della multinazionale attraverso il meccanismo della disconnessione, chiudendo cioè gli account del singolo fattorino e rifiutandosi di corrispondere quanto dovuto per il lavoro precedente. Sarebbero stati “ripetutamente messi in pericolo nella loro integrità fisica con una costante violazione delle norme di sicurezza” a cominciare da mezzi di trasporto, calzature, luci, caschi e l’imposizione del telefono cellulare nel corso della pedalata, si legge nella sentenza con cui nel primo filone celebrato con rito abbreviato la gup Teresa De Pascale ha condannato a 3 anni e 8 mesi Giuseppe Moltini e altri due imprenditori, Giovanni Abbrancati (2 anni) e Isidoro Taddeo (un anno e 6 mesi), fornitori di Uber Eats che reclutavano manodopera straniera proveniente da Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan e Bangladesh.