Intervista a Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatena, un ragazzo "bullizzato" che si suicidò nel 2012 a Roma. "La legge è importante, ma a monte del cyberbullismo, c'è quello reale. E' da lì che si deve partire"
"Non c'è solo il cyberbullismo. A monte c'è il bullismo, o meglio quell'insieme di azioni, parole e incapacità di comprendere il male che si sta facendo che è all'origine di tutto. E il fenomeno non decresce. Anzi, purtroppo continua a essere in espansione". Teresa Manes ha titolo a parlare di queste cose e a lanciare allarmi o a scrivere,. come ha fatto oggi, una lettera aperta a Vincenzo Spadafora, (sottosegretario con delega alle pari opportunità e ai giovani) sul bullismo. Perché Teresa Manes è la madre di Andrea Spezzacatena, un ragazzo romano di 15 anni che il 20 novembre del 2012 decise di togliersi la vita perché non ne poteva più degli atti di bullismo cui veniva sottoposto ogni giorno, in rete e nella realtà, dai suoi compagni di scuola. Lo chiamavano "il ragazzo con i pantaloni rosa" e avevano anche aperto una pagina Facebook con questo titolo, pagina che venne precipitosamente chiusa dopo il suicidio e di cui Teresa riuscì a mettere insieme dei pezzi per portarli in giudizio. Ma il tribunale sentenziò che non c'era stata abbastanza diffusione, che la cosa era rimasta tra poche decine di compagni di scuola e che non c'era materia per condannare nessuno.
Signora Manes, perché la lettera a Spadafora?
"Perché dopo otto anni e dopo la legge sul cyberbullismo, ho la netta sensazione che il problema sia tutt'altro che risolto e che, anzi il fenomeno si stia allargando e che sia sempre più bassa l'età dei bulli e delle vittime. Ormai si assiste a storie di bullismo anche alle elementari".
Come spiega questo allargamento?
"L'Osservatorio sull'adolescenza di Maura Manca ha messo l'accento anche sul fatto che i bambini entrano in contatto con i social sempre più presto, con poco controllo e consapevolezza quasi nulla. E' chiaro che questi fenomeni, che partono dal desiderio di avere un giudizio positivo da parte degli altri e da una carente percezione del dolore che possiamo infliggere agli altri con le nostre parole e i nostri comportamenti, sono destinati ad allargarsi".
Lei da anni gira per le scuole raccontando la sua esperienza. Che situazione incontra? Come sono le risposte?
"Col tempo ho capito che ci sono due aspetti: quello della comprensione delle conseguenze dei nostri gesti e quello, strettamente collegato della deterrenza e anche delle punizioni. Chi ha sbagliato provocando tanto dolore, deve ricevere un segnale (certamente compatibile con l'età) che a certi comportamenti corrispondono risposte anche dure. Altrimenti i ragazzi continuano a pensare che non gli succederà nulla e le vittime continueranno a credere che, in fondo, hanno ragione loro e che 'sono io che sono sbagliato'. Esattamente come accadde a Andrea".
E da questo punto di vista, la legge 71 sul cyberbullismo, le sembra sufficiente?
"Intendiamoci, è una buona legge (soprattutto perché ha il merito di aprire una questione che restava impregiudicata), ma ha dei limiti importanti. Il più evidente è che ci voleva, prima del cyberbullismo, la definizione del 'bullismo'. Perché altrimenti si finisce a contare 'followers' e 'like' per capire se c'è stato reato. Io credo che bisogna fermare e punire comportamenti che, prima di tutto, hanno luogo nella realtà e che, adesso, si spostano nel virtuale perché lì ci sono strumenti migliori"
Torniamo al concetto della comprensione del male che si fa
"Quando parlo nelle scuole e racconto a storia di Andrea, vedo molti ragazzi e ragazze che entrano in tensione perché capiscono che, poco o tanto, sono stati 'bulli' anche loro o hanno rischiato di esserlo. Ecco, una volta che i ragazzi hanno compreso il rapporto tra le loro condotte e il male che possono fare e come anche, la reiterazione faccia parte del bullismo, allora abbiamo fatto un pezzo di strada. Perché c'è un problema di intenzionalità: è probabile che anche i ragazzi che prendevano in giro mio figlio non si siano resi del tutto conto e che la cosa sia sfuggita loro di mano. Quindi ci vuole qualcuno che veda e che intervenga mettendo limiti e stroncando certe cose quando stanno per diventare pericolose. E, siccome, è difficile che gli adulti riescano a conoscere in tempo certe situazioni, è anche necessario che i ragazzi sappiano distinguere ciò che è male da ciò che è scherzo. E sappiano che certe cose sono vietate. Non si possono fare. Punto e basta".
E tornando alle punizioni?
"Credo che i ragazzi che hanno sbagliato debbano essere messi a contatto con la sofferenza. Oggi, però, si tende ad assegnare loro un compito ('vai nel centro X tre volte alla settimana ad aiutare altri giovani') ma poi non si fa abbastanza per verificare cosa hanno capito davvero e se la pena sia servita a qualcosa".