Bari, 3 nov. (LaPresse) – “Mi chiamo Valery”. Un’affermazione che è costata a Gino Ciurlia, 30 anni, di Taurisano, ma residente da tanti anni a Lecce, la condanna ad un anno di reclusione in primo grado da parte del giudice monocratico della prima sezione penale Domenico Greco. Sei anni fa, la transessuale si trovava in via Don Bosco a Lecce e durante un controllo della polizia nei confronti di alcune ragazze romene intervenne in loro difesa. I poliziotti la conoscevano, Ciurlia aveva già piccoli precedenti, ma la portarono comunque in questura. Lì Valery continuò ad affermare la sua identità femminile che però non corrispondeva ai documenti, non avendo ancora effettuato l’intervento definitivo di cambio di sesso, che permette la modifica d’identità anche all’anagrafe. Scattò quindi la denuncia per falsa attestazione a pubblico ufficiale e il conseguente processo.
“Faremo senz’altro ricorso in appello – ha annunciato l’avvocato della transessuale Giovanni Battista Cervo – se è vero che il giudice ha dato alla mia cliente il minimo della pena previsto per questo tipo di reato, non abbiamo potuto usufruire di nessuna attenuante. Non c’è stato dolo nella condotta di Ciurlia, ma solo la volontà di voler affermare un sentire personale diverso da quello che attestavano i documenti”.
“Oggi ho una vita normale e un lavoro, non voglio ricordare quella brutta sera di tanto tempo fa, non c’è nulla da dire” dice a La Presse Valery Ciurla. “Sono serena – ammette – ho fatto l’intervento di cambio di sesso e finalmente sono me stessa anche sulla carta d’identità, non semplicemente a parole”. E di quella norma, l’articolo 495 del codice penale, che punisce la falsa attestazione d’identità a pubblico ufficiale, dice: “In altre nazioni il nome viene cambiato nell’immediato quando le fattezze fisiche non corrispondono più a quelle indicate nei documenti, non credo di aver fatto nulla di male, non ho dichiarato il falso, mi sono qualificata per come apparivo, una donna. I reati da punire credo siano altri”.
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