Siena, 29 gen. (LaPresse) – “E’ andata bene, ho parlato molto”. Poi un sorriso, l’unico sincero di giornata. Solo le 17.30 e Giuseppe Mussari si lascia andare su una sedia di plastica mezza rotta in fondo all’aula della corte d’appello al terzo piano del fatiscente palazzo di giustizia di Siena. L’ultima volta che ci entrò fu accolto dalle monetine, stavolta è arrivato prima delle 7.30 e si è rintanato in aula sfuggendo ai fotografi e alle telecamere. Rispetto ad allora il fisico si è molto asciugato, lo si vede chiaramente attraverso la giacca blu, impeccabile, ma che gli va appena larga. Le lunghe cavalcate mattutine, ‘accudite’ dallo storico fantino del Palio Aceto, ne hanno rastremato i lineamenti, già molto da uomo del Sud, lui calabrese d’origine. “Io maramaldo no” ha sbottato ad un certo punto delle tre ore di interrogatorio di questo pomeriggio. “Mi sono fidato della banca, non potevo controllare tutto, sarebbe stato impossibile” ha spiegato. Sul famigerato derivato Alexandria, per cui è accusato di ostacolo alla vigilanza insieme all’ex d.g. Luigi Vigni e all’ex capo dell’area finanza Gianluca Baldassarri, Mussari però ha fatto ancora meno del solito secondo l’accusa. Dopo aver letteralmente messo la sua faccia in una call conference del 2009, per tranquillizzare la banca giapponese Nomura che si era offerta di ‘ristrutturare’ quel derivato del 2005, Mussari non ha più chiesto nulla né qualcuno a lui o al cda ha esposto l’evoluzione della situazione, che si è tradotta in debito miliardario pagato con gli interessi di Btp al 2034.
Il mondo di Mps, per come l’ha raccontato Mussari era perfetto: tutti facevano il loro lavoro benissimo, e le constatazioni di Bankitalia non erano “perniciose” solo perché non portavano a sanzioni, pur evidenziando seri problemi nei conti di Mps. “Io ho dato del lei a tutti in banca, solo a tre persone dava del tu” ha spiegato anche Mussari. Tra queste c’era quel David Rossi che si uccise nella sede di Rocca Salimbeni. Mussari mentre lo ricorda si ferma, prova a parlare ma non ci riesce, e con un gesto di rabbia tira una riga su un foglio che ha davanti a sé. Una tragedia da cui non sembra riuscire a liberarsi, le mani tremano anche a fine interrogatorio. Beve un’ampia sorsata d’acqua. Il due volte presidente dell’Abi, l’associazione dei banchieri, eletto e rieletto mentre su Mps le nubi già si addensavano, parla poco. Scherza solo con Vigni, che rivede, stando alla sua dichiarazione dopo quasi due anni. I due si scambiano varie occhiate, specie quando a essere interrogato è l’ex d.g., che Mussari chiamò a quel ruolo nel 2006 quando lavorava al Monte oramai da 34 anni. Oggi Vigni si è dichiarato coltivatore diretto. Mussari non risponde quando Leonardo Grassi, presidente del collegio giudicante gli chiede cosa faccia di professione, ad inizio interrogatorio.
Mussari non indietreggia davanti alle domande puntuali del pm Giuseppe Grosso. Lo stesso aveva fatto quando ad interrogarlo era stato il suo avvocato Fabio Pisillo. E’ lunga la serie di cose che Mussari non sapeva, o non poteva sapere, o non ricorda. Il derivato Alexandria che non ha mai nascosto, che fu acceso prima del suo arrivo, ma che se fosse stato scoperto tra 2008 e 2009, “sarebbe stato come la peste, perché saremmo stati messi insieme alle banche in difficoltà per i derivati” ha spiegato Mussari. I conti traballanti del Monte, dopo l’acquisizione iper-onerosa di Antonveneta non permettevano cali di credibilità, ecco allora entrare in scena Nomura e la sua soluzione “complessa”. Che Mussari ignorava nei suoi aspetti tecnici, e che nessuno dei suoi fedelissimi gli ha spiegato nei dettagli, né a lui né al mercato. Così che quando il nuovo a.d. di Mps, Fabrizio Viola scoprì nella cassaforte della direzione generale un ‘mandate’ con tutte le clausole di quel contratto con Nomura, la banca rischiò il tracollo. Mussari però non era più in sella a Mps, ma le accuse lo raggiunsero lo stesso. Poi il lungo silenzio rotto oggi in aula. Gli occhi sottili e i capelli sempre folti ma molto più corti rispetto al passato, nascondono quello che tra Fondazione e Banca per oltre 15 anni ha gestito tutto o quasi a Siena. Domani mattina all’alba è probabile che Mussari, come ogni giorno salga in sella a uno dei suoi cavalli e galoppi nella bruma di queste gelide mattine in Chianti. Ai risparmiatori che hanno perso tanti soldi, ai dipendenti a rischio taglio, e a migliaia di senesi toccherà invece affrontare le proprie miserie, in quella ‘Città ideale’, come il titolo del film di Luigi Lo Cascio che è ambientato a Siena, ma che ideale non è più.
di Jan Pellissier
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