di Chiara Dalla Tomasina
Milano, 22 ott. (LaPresse) – Una serata di festa, una premiazione importante, tanta gente equamente diffusa tra addetti ai lavori e appassionati di arte: questo è stato il 16esimo Premio Cairo, che si è svolto ieri sera, e che ha portato alla vittoria il 39enne Alessandro Piangiamore e la sua opera, ‘La XXI cera di Roma’.
Ma, dietro a una serata trionfale e prestigiosa, c’è un anno di intenso lavoro, di chi ha battuto mostre e studi artistici per selezionare i 20 artisti che hanno partecipato alla gara. Questa persona è Michele Bonuomo, direttore della rivista Arte, che da un anno osserva con attenzione e con l’occhio ‘del mestiere’ gli artisti under 40 adatti, a suo avviso, a rappresentare bene la contemporaneità e per questo pronti per partecipare alla selezione. Venti artisti, quindi, a ognuno dei quali è stata assegnata un’opera da produrre appositamente per il premio, quindi inedita. Che Bonuomo ha selezionato con attenzione e intuito.
Direttore Bonuomo, che valore ha il Premio Cairo per un artista?
“Il Premio Cairo è arrivato alla sedicesima edizione, in 16 anni non solo è cresciuto ma è diventato una realtà molto importante nella scena dell’arte italiana. Questo per un paio di motivi molto precisi. Uno è il sostegno che c’è da parte del nostro presidente Urbano Cairo che l’ha fortemente voluto. Cairo faceva un altro mestiere, ma ha avuto sempre questa grande passione che è riuscito a trasmettere a tutti quelli che hanno lavorato a questo premio. L’altro motivo è che in quesiti 16 anni chiunque lo ha gestito, dai vari curatori ai critici, agli artisti, l’hanno sempre visto come un’occasione molto importante, perché è un premio che ha un’identità italiana molto forte. Che non è un’identità sciovinista, ma è un’identità precisa, che fa molta attenzione a quelle che sono le emergenze”.
Partecipano solo artisti italiani?
“Finora il Premio Cairo è solo per gli artisti italiani, ma mi auguro che riusciremo ad aprirlo perlomeno all’Europa”.
Perché affidare la selezione a un direttore di giornale?
“Da due anni, da quando sono con la redazione, curo direttamente il premio, perché prima era un curatore esterno oppure dei proponenti che sceglievano gli artisti e poi una giuria sempre esterna. Da due anni c’è la redazione di Arte e mi sembra logica questa scelta: siamo un giornale leader, un osservatorio precisissimo e riusciamo a individuare e avere un orizzonte molto sgombro. E poi abbiamo un’importante giuria presieduta da Luca Beatrice, critico d’arte e curatore. In giuria abbiamo grandissimi nomi: Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia, Vincenzo De Bellis, direttore artistico della fiera MIART di Milano, Claudia Dwek, presidente di Sotheby’s Italia e vicepresidente di Sotheby’s Europa, Gianfranco Maraniello, direttore del MART di Rovereto, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, presidente della Fondazione Re Rebaudengo e Andrea Villani, direttore del MADRE di Napoli. Insomma, quello che oggi è il meglio nel campo dell’arte contemporanea”.
Come avviene la selezione?
“La nostra selezione consiste nell’individuare 20 artisti a cui chiediamo 20 opere, poi questa giuria di altissimo profilo che ho citato sceglie l’opera, non tanto il percorso dell’artista o il curriculum, ma ragiona solo sull’opera: questo è diventato premiante, fa sì che questo premio diventi un riferimento. Poi c’è un giornale che sostiene il premio e che ha il vantaggio di essere molto autorevole, quindi gli ingrediente sembrano tutti buoni”.
Che momento è questo per l’arte contemporanea?
“E’ un momento molto interessante, perché c’è disponibilità verso l’arte contemporanea sempre maggiore, anni fa sarebbe stata una cosa più di nicchia, oggi invece c’è un’attenzione molto più sentita e partecipata”.
Che caratteristiche hanno i partecipanti?
“Intanto ci tengo a sottolineare che il vincitore si porta a casa 25mila euro e la copertina del giornale. Gli artisti devono essere già affermati, poniamo un limite dei 40 anni di età e non devono superarlo, l’opera dev’essere fatta apposta per il Premio, non deve essere mai stata mostrata, dev’essere inedita, mai esposta, mai pubblicata, fatta rigorosamente per il Premio Cairo”.
Che criterio utilizzate nella selezione delle venti opere?
“Il criterio che utilizziamo è abbastanza oggettivo. Intanto, tra un mese cominceremo a ragionare per il prossimo Premio, cominciamo a vedere qual è il panorama italiano, perché la nostra intenzione è sempre quella di riuscire a focalizzare quello che sta succedendo in quell’anno. Che cosa si è mosso, che cosa si è affermato più di altri? – ci chiediamo, quindi il criterio è di cominciare a guardare chi è più ‘sul pezzo’ in quel momento, chi ha più autenticità, chi sta portando avanti un lavoro, e questo si può fare solo in una verifica continua. Noi ci diamo un anno di tempo prima di arrivare a selezionare i 20 artisti a cui commissioniamo un’opera, sarebbe troppo facile dire ‘buona la prima’. Il lavoro grosso è fare una specie di mappa, poi da questa mappa io vado a vedere le mostre, in giro, negli studi, per cui è un lavoro sul campo, molto impegnativo. Finché non dico a un artista ‘Va bene, puoi partecipare’, voglio avere la sicurezza che l’opera non sia una ‘fiammata’ e basta. C’è un lavoro da parte mia e della redazione molto puntuale. Il vantaggio è che siamo all’interno di un giornale d’arte e sappiamo bene cosa accade in questo mondo”.
Come commenta l’opera di Alessandro Piangiamore, il vincitore?
“E’ un quadro che dimostra con molta chiarezza come il linguaggio della pittura non va inteso come l’abbiamo inteso finora: si pensa che la pittura sia solo con i colori ad olio. L’utilizzo dei materiali canonici aveva un senso finché non c’erano state delle trasformazioni tecnologiche: se nella metà dell’800 non si inventava la fotografia, probabilmente non avremmo mai avuto l’arte moderna, perché da quel momento in poi l’artista capisce che se voleva rappresentare la realtà non c’era più bisogno di perdere tre mesi per fare un quadro pittorico, perché con la macchina fotografica si fa uno scatto, che è anche più preciso. E’ la dimostrazione di come la materia, quindi anche il dispositivo pittorico, non si può fermare alla tecnica tradizionale, o meglio, la tecnica tradizionale la puoi utilizzare, ma ci devi mettere un’altra intenzione, altrimenti non ha più senso. Nel caso di Alessandro Piangiamore c’è tutto un processo, lui arriva alla pittura ma arriva dopo tutto un fare, un altro tipo di comportamento, e solo alla fine compone un lavoro di questo tipo. Quello che è importante diventa il processo, ed è chiaro che il processo non deve essere poi separato dall’esito finale. Diventa un’opera importante quando l’equilibrio tra processo e punto finale coincidono, altrimenti sono solo belle intenzioni”.
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