Professor Poli: Più fondi a ricerca, Aids è ancora emergenza

Trent'anni fa fu approvato il primo farmaco contro il virus ma per gli studiosi c'è ancora tanta strada da fare

Sono passati trent’anni da quando la Food and Drug Administration approvò l’AZT, il primo farmaco antivirale impiegato nel trattamento dei pazienti affetti da HIV. Un passo importantissimo per la ricerca, di cui si ricorda perfettamente il professor Guido Poli, docente della facoltà di Medicina e chirurgia al San Raffaele di Milano e direttore dell’Unità di Immunopatogenesi dell'AIDS dell’istituto.

LaPresse ha deciso di contattarlo per capire meglio che significato ebbe quel primo step e quali sono attualmente percorsi, obiettivi e difficoltà dei ricercatori in questo campo.

Il 19 marzo 1987 fu approvato l'AZT, il primo farmaco antivirale impiegato nel trattamento dei pazienti affetti da HIV. Un vero punto di svolta per la ricerca…

Lo ricordo bene! Ero da poco arrivato ai mitici NIH (National Institutes of Health) di Bethesda, nel Maryland, dall’Istituto Mario Negri di Milano dove avevo iniziato la mia ricerca su HIV/AIDS. L’AZT era una specie di 'farmaco orfano', sviluppato vent’anni prima come antitumorale e poi abbandonato, e ai NIH esisteva un programma di screening di tutti i farmaci noti per verificare che ve ne fosse qualcuno almeno parzialmente efficace contro questa nuova malattia. La scoperta fu fatta all’NCI (National Cancer Institute) da Samuel Broder e Hiroaki Mitsuya e fu il primo, seppur solo parziale, successo contro l’AIDS, la prima indicazione che era possibile scoprire farmaci per contrastare la replicazione virale e i danni che ne conseguono.

Partendo da quel risultato, quali sono stati i passaggi successivi dei ricercatori? Quanto tempo c'è voluto per arrivare a sperimentare un nuovo farmaco e raggiungere quindi un nuovo traguardo?

Il valore della scoperta dell’AZT è multiplo. Lo studio clinico controllato anglo-francese nominato Concorde già agli inizi degli anni ’90 dimostrò che la terapia con AZT causa un rallentamento iniziale della progressione di malattia, ma non è in grado di controllarla. Ciò ha fatto immediatamente capire che era necessario identificare nuovi farmaci in grado di sinergizzare con AZT agendo su punti diversi del cosiddetto ciclo vitale del virus. L’AZT, infatti, inibisce l’enzima chiave del virus, la trascrittasi inversa, che copia il genoma virale costituito da RNA in una versione a DNA che poi andrà ad inserirsi nel genoma umano. Il virus, purtroppo, impara velocemente ad aggirare l’ostacolo accumulando mutazioni di resistenza al farmaco. Tuttavia, la monoterapia con AZT ha conquistato un altro successo fondamentale: somministrata una o due volte ad una madre infettata prima del parto, causa un abbattimento importante della trasmissione del virus al feto permettendo al neonato di nascere sano. Per molti anni questo è stato l’unico intervento di rilievo nel continente africano e, anche se oggi si utilizzano altri farmaci a questo scopo, quest’altra pietra miliare rimane ascritta all’AZT.

Verso la metà degli anni ’90 sono arrivati gli altri successi della ricerca di farmaci antiretrovirali: gli inibitori della proteasi del virus, enzima necessario per produrre proteine virali mature e rendere quindi infettive le particelle virali. Sebbene quando dati da soli anche questi farmaci incorrano nello stesso problema dell’AZT, se combinati ad essa, agendo su punti diversi del ciclo vitale del virus, producono quella famosa sinergia in grado di bloccare potentemente la replicazione virale e la progressione di malattia. Infatti, per il virus è molto più difficile, anche se non impossibile, aggirare entrambi gli ostacoli. Molti altri farmaci sono stati poi individuati e sommati all’AZT ed agli inibitori della proteasi virale, creando veri e propri cocktail antiretrovirali che, inizialmente, erano costituiti da 30 pillole al giorno. Oggi siamo arrivati a sole 1-2 pillole quotidiane.

Sappiamo che l'HIV è un virus particolarmente difficile da trattare, perché attualmente impossibile da eradicare. C'è qualche possibilità concreta di riuscire a trovare una cura per eliminarlo definitivamente? Quali sono attualmente le strade sulle quali vi state muovendo?

Il cuore del problema dell’infezione da HIV, che se non trattata porta all’AIDS, un’immunodeficienza mortale, è che il virus, come prima ricordato, si integra nel genoma delle cellule che infetta. Sebbene il 95% o più delle cellule infettate muoia, ne rimane sempre qualcuna che sopravvive. Per le caratteristiche immunologiche di queste cellule, dotate di una lunghissima vita media, ciò garantisce all’infezione di perdurare per l’intera vita di una persona, anche in presenza di farmaci che bloccano la replicazione del virus. Nella seconda metà degli anni ’90 si era sperato che le potenti terapie antiretrovirali di combinazione e la recuperata funzione immunitaria conseguente fossero in grado di sterilizzare l’infezione ed eliminare definitivamente la malattia, ma tutti i tentativi fallirono a causa della persistenza delle cellule di cui sopra. Si è capito quindi che era necessario sviluppare nuove strategie mirate a questo serbatoio di cellule infettate e a lunga vita.

Quella che è stata seguita maggiormente è stata definita 'shock and kill', ovvero risveglia (il virus dormiente) e uccidi (la cellula infettata). Il sistema, tuttavia, funziona bene in vitro, ma non in vivo dove prevalgono gli aspetti tossici dei farmaci usati, i quali non sono, a differenza degli antiretrovirali, specifici per le cellule infettate, ma agiscono su quasi tutte le cellule. Si sta quindi iniziando a considerare l’approccio opposto che potremmo definire di addormentamento definitivo del virus, ma siamo veramente agli inizi.

Qual è lo stato della ricerca sull'HIV qui in Italia? Le risorse che avete a disposizione sono sufficienti?

Questo è un tasto veramente dolente perché l’Italia si era conquistata, e in parte ancora mantiene, un posto in prima fila alla lotta all’AIDS ed al virus che la causa anche per la qualità della sua ricerca sia clinica che di base a fronte di investimenti molto piccoli se comparati a quelli degli Usa e di altre nazioni europee. Ciò è stato possibile per la lungimiranza dello scomparso dr. Giovanni Battista Rossi dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma che, a fine anni ’80, ricevette un miliardo di lire per affrontare la nuova malattia emergente. Invece di distribuire il finanziamento a pochi amici, creò un Programma Nazionale per la Lotta all’AIDS finanziando i migliori cervelli per creare una massa critica in grado di affrontare la nuova sfida e divenire rapidamente competitiva a livello internazionale. La sua visione si realizzò in pieno e permise anche il rientro di tanti giovani ricercatori che avevano dimostrato il loro valore all’estero, tra cui il sottoscritto, per contribuire alla causa. Anche dopo la prematura scomparsa di Rossi il Programma Nazionale funzionò bene fino al 2010 quando fu bruscamente interrotto senza alcuna giustificazione se non la generica, e sbagliata, affermazione che "l’AIDS non è più un’emergenza".

Il risultato è che la maggior parte dei laboratori dedicati alla ricerca sull’AIDS ha chiuso o si è convertita ad altro e che non formiamo quasi più giovani ricercatori in grado di fronteggiare le nuove sfide in campo virologico.

E’ stato da poco varato il nuovo Piano Nazionale per la Lotta all’AIDS, e ciò è ovviamente una buona cosa, ma purtroppo la parola ‘ricerca’ non compare. La speranza è che qualche politico illuminato capisca l’importanza delle competenze accumulate in oltre vent’anni di Programma Nazionale AIDS per aggiornare e migliorare il nuovo piano.

Ricordo che in Italia abbiamo circa 150mila persone infettate, che ad infettarsi sono spesso giovani, addirittura adolescenti, completamente ignari del rischio di rapporti sessuali non protetti. Una persona su 5 scopre inoltre di essere infettata perché già in AIDS e ciò implica che egli o ella ha avuto 7-8 anni di tempo per propagare l’infezione ad altri per via sessuale. Ma sicuramente la maggioranza dei politici continua a pensare che "l’AIDS non è più un’emergenza".