Forti malumori per la gestione delle presidenze di commissione 

 La bomba è esplosa. Le dimissioni di Vincenzo Spadafora, messe sul piatto (e congelate) in un incontro ieri con il premier, Giuseppe Conte, dopo le polemiche scatenate dalla lettera del direttivo della Camera che chiedeva lo stop alla riforma dello sport, sono l'ultimo capitolo di una guerra interna che sta mettendo a rischio la tenuta delle truppe. Soprattutto a Montecitorio, dove il board è ad un passo dalla conclusione anticipata. Per volontà dei colleghi, già innervositi da come sono stati condotti i negoziati per il rinnovo delle commissioni, e ora addirittura infuriati per l'uscita sul ministro dello Sport, tra l'altro uno degli ufficiali di collegamento col Pd. Già diverse ore prima della 'congiunta' di ieri sera molti deputati si sono lasciati andare a giudizi sprezzanti: "Per colpa di questi 'geni' del direttivo, rischiamo di andare a casa tutti".

 Il punto centrale non sono le troppe "concessioni" all'arciodiato Giovanni Malagò, cui la riforma (partorita dall'ex sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, poi rimaneggiata da Spadafora) concede la possibilità di un terzo mandato. Su quello il disappunto è quasi unanime. I parlamentari non riescono a trovare una spiegazione logica alla mossa di mettere in discussione l'operato di un proprio ministro in un momento di grande difficoltà negli equilibri di maggioranza, per giunta facendo filtrare all'esterno una lettera che, di fatto, impone una sola strada: il passo indietro. "Ma come si fa a mandare una roba del genere?", si domanda più di un portavoce 'di peso'.

 Per il principio che 'i panni sporchi si lavano in famiglia', la protesta doveva avere toni e modi totalmente differenti. E il fatto che la vicenda sia finita sulla bocca di tutti, e "peggio ancora in pasto ai media", allora vuol dire solo una cosa: "Totale inadeguatezza del direttivo". Oltretutto, in questo "pasticciaccio" – come lo definiscono nel mondo Cinquestelle – c'entrano poco i giochi delle correnti tra 'dibattistiani' (a proposito, è nato il secondogenito di Dibba, Filippo), 'dimaiani' o 'contiani'. In ballo ci sono gli equilibri del primo partito in Parlamento. E a cascata la tenuta della stessa maggioranza. Un gruppo nervoso che sente di non avere, diventa una mina vagante nel percorso di una legislatura. Serve una svolta, e in tempi brevi. Cambiare è la parola d'ordine. Dai dirigenti alla comunicazione: l'inversione deve essere totale.

 Stesso discorso vale a livello nazionale. Anche Vito Crimi, infatti, è finito sulla graticola per quella che i Cinquestelle considerano una "sconfitta" nella trattativa per il rinnovo delle commissioni. Passare da 17 a 14 presidenze, per una truppa di circa 300 portavoce, viene visto come un flop dal quale non può essere esente il capo politico, seppur pro tempore e in attesa di consultazione per la scelta del nuovo leader. Che avverrà non prima di ottobre, con gli stati generali. Un lasso di tempo troppo lungo e che attraverserà di netto la discussione per la ripartizione dei fondi europei, dal Recovery fund all'odiato Mes. Un gruppo di lavoro composto da forti personalità, che rappresenti le varie anime – è il ragionamento nel M5S – può incidere di più e meglio per evitare "brutte sorprese".

 C'è, infine, l'aspetto economico da non trascurare. Il Collegio dei probiviri ha, infatti, inviato la diffida formalmente ai portavoce in ritardo con le rendicontazioni. Obbligo da adempiere "entro il termine del 24 agosto". Chi non sanerà la propria posizione per tempo sarà passibile di una "azione disciplinare" con "consequenziali provvedimenti". Nel Movimento, insomma, non si fanno più sconti.
 

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