Primo giorno in tribunale a Bruxelles per il processo a Salah Abdeslam, unico membro ancora in vita del commando jihadista che attaccò Parigi il 13 novembre 2015. La procura ha chiesto per lui e per suo complice nella fuga, Sofiane Ayari, accusato come lui di aver sparato sulla polizia nel marzo 2016, una pena di vent'anni di carcere, con un periodo di massima sicurezza di due terzi.
Si tratta della pena massima prevista per tentato omicidio di poliziotti, ha spiegato la rappresentante della procura federale, Kathleen Grosjean. "E' una vera scena di guerra quella cui la polizia ha dovuto far fronte, è un miracolo che non ci siano stati dei morti tra gli agenti", ha affermato.
Gli investigatori francesi e belgi erano stati sorpresi da spari nel raid del 15 marzo 2016 in una appartamento di rue du Dries a Forest, in Belgio. Tre poliziotti erano rimasti feriti, mentre un jihadista algerino di 35 anni, Mohamed Belkaïd, era stato ucciso nel tentativo di proteggere la fuga di Salah Abdeslam e Sofiane Ayari. Per Grosjean, poco importa chi avesse le armi: tutti gli occupanti dell'appartamento, tutti membri della cellula jihadista all'origine degli attentati di Parigi e Bruxelles, possono essere considerati corresponsabili degli spari contro la polizia.
"Attaccare le forze dell'ordine e il Belgio in generale, è qualcosa di voluto e accettato da tutti e tre. Sono addestrati, sono combattenti, erano là in attesa da settimane", ha aggiunto la magistrata. Ha inoltre detto che non esiste dubbio volessero uccidere: "Sentendo la parola 'polizia' alla porta, perché non sono fuggiti? Il fatto che siano rimasti significa che il loro obiettivo era attaccare, combattere il nemico, uccidere i poliziotti se fossero stati scoperti".
Presente in aula, Abdeslam ha rifiutato di rispondere alle domande, affermando: "Giudicatemi, fate ciò che volete di me, è nel mio signore che ho fiducia", "non ho paura di voi e dei vostri alleati. Ripongo la mia fiducia in Allah e questo è tutto, non ho altro da dire". Il 28enne ha anche spiegato il motivo per cui rifiuta di collaborare con i giudici, nonostante abbia voluto essere presente al processo: "Il mio silenzio non mi rende un criminale, è la mia difesa".
Ha poi chiesto al tribunale di considerare "le prove scientifiche e tangibili" nel prendere decisioni sul suo caso, affermando che altrimenti esso "cederebbe la sua funzione ai media". "I musulmani – ha dichiarato ancora – sono giudicati e minacciati nei peggiori modi, senza pietà. Non esiste presunzione d'innocenza", "io dichiaro che non c'è altro dio oltre ad Allah, Maometto è il suo servitore ed è il suo messaggero".