di Fabio De Ponte
Roma, 24 nov. (LaPresse) – Per far aumentare entro la fine del secolo la temperatura di due gradi – limite massimo oltre il quale gli effetti sul cambiamento climatico saranno irreversibili – basta l’emissione di circa 800 miliardi di tonnellate di CO2. Ne sono già andati in atmosfera circa 515. Abbiamo quindi ancora un margine di poco meno di 300, meno della metà. Il disastro può essere ancora fermato, ma bisogna investire di più in rinnovabili e su questo fronte la Cina sta facendo sorprendentemente più dell’Europa. È il quadro che emerge dal convegno ‘Verso la conferenza di Parigi sul clima’ che si è svolto all’università Luiss di Roma in vista del summit internazionale che si apre lunedì nella capitale francese.
Negli ultimi 800mila anni le concentrazioni di CO2 non avevano mai superato le 300 parti per milione, ma negli ultimi 150 anni sono salite sopra i 400. E il fenomeno continua ad accelerare: tra il 2000 e il 2010 le emissioni sono state maggiori che nei tre decenni precedenti, spiega Carlo Carraro, coordinatore del programma Cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile della fondazione Eni Enrico Mattei, nonché direttore dell’International Centre for Climate Governance (Iccg) e professore di economia ambientale alla Ca’ Foscari di Venezia. “Per questo – dice – anche il focus della conferenza di Parigi è completamente cambiato: è diventato non solo più il contenimento delle emissioni ma anche quello della protezione dagli impatti e la compensazione per i Paesi che saranno colpiti da quegli impatti da cui non ci si può proteggere”. Proprio a questo scopo, ricorda, è nato il fondo da 100 miliardi di dollari, deciso alla conferenza sul clima di Copenaghen del 2009. Al momento sono state raccolte risorse per 10 miliardi e impegni per altri 60, quindi siamo a buon punto.
Ma il bicchiere è mezzo pieno: “Se Kyoto – spiega – copriva Paesi responsabili del 12% delle emissioni globali, la conferenza di Parigi coinvolge 161 Paesi, pari al 92% della popolazione globale e soprattutto al 91% delle emissioni”. Questo grazie anche alla Cina: “Usa e Cina hanno stipulato due accordi, trascinando molti Paesi verso posizioni più ambiziose e hanno rotto lo scontro storico tra Paesi sviluppati e meno sviluppati” con i secondi che accusavano i primi di essere i responsabili del problema e rivendicavano il diritto di inquinare tanto quanto hanno fatto loro. Anche se c’è da dire, puntualizza Christine Bakker, docente olandese di diritto internazionale che insegna all’università di Roma Tre, che, secondo le rilevazioni più recenti, la Cina ha il 17% di emissioni reali in più rispetto a quanto dichiarato dal Governo.
Ma è meglio chiudere un occhio, è una catena della quale servono tutti gli anelli. A partire ovviamente dagli Usa: “Il rischio a Washington – spiega Francesco La Camera, direttore generale per lo sviluppo sostenibile del ministero dell’Ambiente – è che il Congresso non approvi l’accordo. Se perdessimo gli Usa, non avremmo la Cina, e senza Cina non ci sarebbe l’India. Senza l’India salterebbe il Brasile. Insomma di fatto salterebbe l’accordo”.
A prendere le parti di Pechino è Francesca Sanna Randaccio, del dipartimento di ingegneria informatica della Sapienza. “Sta trasformando – sottolinea – la conversione energetica in un business e l’Europa deve prendere esempio, perché non sta facendo altrettanto. In Cina c’è un massiccio aumento della generazione elettrica da eolico e solare, le rinnovabili sono in forte espansione. C’è una transizione molto consistente da fonti fossili a rinnovabili”. “Nel caso degli Usa invece non c’è menzione negli impegni per Parigi sulle rinnovabili. Per loro le rinnovabili non sono una priorità”. Non solo, ma neanche l’Europa sta facendo molto: “L’Ue – dice l’esperta – non prevede norme specifiche sulle rinnovabili ma si richiama alle norme interne dei singoli Paesi”. Eppure quello sulle rinnovabili è uno sforzo che potrebbe pagare molto. Già così, se tutti i Paesi rispettassero i propri attuali impegni, nel 2030 potremmo arrivare a una situazione in cui il 34% dell’energia sarebbe prodotto da fonti rinnovabili, contro il 22% del 2013.
Proprio l’applicazione degli impegni annunciati, in effetti, diventa ora il problema sotto la lente degli esperti. La conferenza infatti si basa su contributi volontari, e ogni Paese stabilisce i suoi. L’accordo di Parigi di per sé non sarà neanche legalmente vincolante.
Perciò occorrerà, dice La Camera, “un meccanismo di monitoraggio quinquennale, in modo che la comunità internazionale possa governare il problema”. Di nuovo a sorprendere è la Cina, uno dei pochi Paesi che sarebbe favorevole a una intesa vincolante.
Alla fine, comunque, che l’intesa si giuridicamente vincolante o meno, dice Romanin Jacur, della fondazione Mattei, poco importa: “Sta cambiando la prassi – spiega -. I Paesi annunciano gli impegni dopo aver già compiuto un percorso nelle proprie istituzioni interne. In passato avveniva il contrario, prima c’era l’impegno internazionale e poi la ratifica dei Parlamenti. Ora non si va più dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto. Questo è positivo e dimostra che non sempre un accordo giuridicamente vincolante è più efficace di uno che non lo è”.