Di Fabio De Ponte
Gaza (Striscia di Gaza), 13 lug. (LaPresse) – Si sono offerti come scudi umani. Sono 8 attivisti internazionali che presidiano l’ospedale Al Wafa, una struttura di riabilitazione a est di Gaza, poco distante dal confine con Israele. Il nosocomio è stato colpito nella notte tra giovedì e venerdì da quattro missili, rimanendo danneggiato ma non distrutto. Un avvertimento inequivocabile: “Evacuatelo perché bombardiamo”. La struttura ospitava alcune decine di pazienti. Quelli che potevano se ne sono andati, accompagnati dai parenti. Ma 14 non erano in condizione di muoversi e sono rimasti. E così è scattata la solidarietà per salvare questo ospedale e le vite che contiene.
“PAZIENTI NON AUTOSUFFICIENTI”. Tra gli attivisti che hanno scelto di mettere a rischio la propria vita c’è Julie Webb, una donna di 60 anni proveniente dalla Nuova Zelanda. “I pazienti che restano nella struttura – racconta a LaPresse – non sono autosufficienti. Molti sono intubati, la maggior parte è parzialmente paralizzato e impossibilitato a muoversi. Hanno dai 13 agli 80 anni”. Erano 14, ma ieri sono diventati 15: è arrivato un 16enne dall’ospedale Al Shifa, il maggiore della Striscia, rimasto gravemente ferito nei bombardamenti.
OTTO ATTIVISTI COME SCUDI UMANI. “I primi due missili hanno colpito l’ospedale alle due di notte – racconta Webb – portando via un pezzo del vano ascensore e del tetto. Allora i pazienti del quarto piano sono stati spostati al piano di sotto. Alle sette di sera altri due missili, che hanno mandato in frantumi una porta antincendio e distrutto le finestre”. Uno dei missili è stato lanciato da un drone. Temendo il peggio il direttore dell’istituto, Basman Alashi, ha chiesto aiuto. Otto persone, provenienti da sette differenti Paesi, hanno risposto al suo appello e si sono offerte come scudi umani. Oltre a Webb, ci sono attivisti da Usa, Australia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Venezuela.
“LE PERSONE PIU’ VULNERABILI CHE SI POSSA IMMAGINARE”. I pazienti di Al Wafa, spiega l’attivista, “sono le persone più vulnerabili e dipendenti che si possa immaginare. La loro unica protezione è rappresentata dallo staff dell’ospedale che continua a prendersi cura di loro”.
“URLA DI TERRORE”. Il bombardamento ha portato il terrore nell’ospedale: “Itaf Kali – racconta – una donna intubata, si agitava incontrollabilmente aggrappandosi a tutte le persone che le capitavano a portata. Aya, una donna rimasta paralizzata a causa della meningite, ma cosciente, urlava di terrore”. Nell’ospedale ci sono anche Yusra Abu Mousa, 23 anni, in coma da quando ne aveva 9, a causa di un incidente; Mohammed, un chimico rimasto folgorato in un esperimento a causa di uno sbalzo di tensione, “che non può urlare a causa di una tracheotomia”; un altro Mohammed, 13enne, che due mesi fa ha avuto un grave incidente in acqua e che “mostrava recentemente i primi segni di miglioramento”.
“INFERMIERI PIU’ FORTI DELLE BOMBE”. Persone che hanno bisogno di essere difese, spiega. E così lei e gli altri internazionali hanno deciso di restare accanto a medici e infermieri, a far valere il loro passaporto di peso, che i raid non possono permettersi di ignorare. Perché, dice Webb, che a 60 anni mette a rischio la propria vita, “la forza e la resistenza del personale dell’ospedale è più forte di qualsiasi bomba israeliana”.
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