Washington (Usa), 19 giu. (LaPresse/AP) – “Le forze americane non torneranno a combattere in Iraq”. Così il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al termine di un incontro con il team per la sicurezza nazionale Usa sgombra il campo da ogni dubbio sulla possibilità di un nuovo invio di truppe di terra americane in risposta all’avanzata in Iraq del gruppo jihadista Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil). “Non abbiamo la capacità di risolvere questo problema inviando semplicemente decine di migliaia di truppe e impegnando denaro e risorse umane”, ha affermato il presidente. Il discorso di Obama, che inizialmente doveva tenersi alle 18.30, è stato ritardato, e il presidente è comparso nella sala briefing della Casa Bianca intorno alle 19.30. Intanto sul campo prosegue per il terzo giorno la battaglia fra i militanti e i soldati iracheni per il controllo della raffineria di Beiji, 250 chilometri a nord di Baghdad.
OBAMA: PRONTI A INVIARE FINO A 300 CONSIGLIERI MILITARI. Dall’intervento di Obama emerge quanto segue: niente truppe Usa da combattimento in Iraq, niente raid aerei americani (come invece aveva chiesto il governo di Baghdad) e niente richiesta esplicita di dimissioni del premier iracheno Nouri al-Maliki. Il presidente Usa, però, ha annunciato che Washington è pronto a mandare fino a 300 consiglieri militari in Iraq, che uniti agli altri 275 soldati già inviati per sostenere l’ambasciata Usa a Baghdad e altri punti di interesse americani porteranno a quasi 600 i militari Usa sul terreno in Iraq. E ha affermato anche che gli Stati Uniti sono pronti a compiere “azioni militari mirate” e precise in Iraq se potranno contribuire a combattere la crescente minaccia proveniente dai militanti estremisti. In quel caso “saremo in stretta comunicazione con il Congresso”, ha assicurato Obama. “Non ci sarà una semplice soluzione militare” per l’Iraq, ha ribadito. Gli Stati Uniti hanno ritirato dall’Iraq le loro ultime truppe alla fine del 2011, dopo oltre otto anni di guerra, dopo che Washington e Baghdad non erano riusciti a raggiungere un accordo per prolungare la presenza delle truppe Usa.
OBAMA: SERVE GOVERNO INCLUSIVO PER EVITARE GUERRA CIVILE. Pur non chiedendo le dimissioni di al-Maliki, l’inquilino della Casa Bianca ha invitato i leader iracheni a governare con “un’agenda inclusiva” per garantire che l’Iraq non scivoli in una guerra civile e ha detto che, chiunque sia il premier in Iraq, deve assicurarsi che tutti i gruppi settari – sia gli sciiti, sia i sunniti, sia i curdi – sentano che il processo politico possa fare i loro interessi. “Non spetta a noi scegliere i leader iracheni”, ha detto il presidente Usa. Fonti Usa spiegano che fare pressioni troppo forti su al-Maliki, per Washington, rischierebbe di portare a un irrigidimento del premier iracheno per restare al potere e a un suo avvicinamento all’Iran, Repubblica sciita che sta invece cercando di mantenere al-Maliki al governo.
IRAN POTREBBE GIOCARE RUOLO COSTRUTTIVO. Obama ha fatto poi riferimento agli sforzi diplomatici in corso per gestire la crisi irachena. Dopo avere annunciato che il segretario di Stato americano John Kerry, “partirà questo fine settimana per il Medioriente e l’Europa”, ha detto che l’Iran potrebbe avere un ruolo costruttivo nella crisi. Ma solo se Teheran passerà, come Washington, il messaggio che il governo di Baghdad deve essere più inclusivo e deve rispettare gli interessi dei sunniti e dei curdi. Se invece l’Iran entrasse nel conflitto solo come forza armata a sostegno del governo sciita iracheno, allora il suo intervento potrebbe solo peggiorare la situazione, ha affermato Obama.
L’ISIL E GLI SCONTRI PER IL CONTROLLO DELLA RAFFINERIA DI BEIJI. L’avanzata dell’Isil in Iraq è cominciata martedì 10 giugno, quando il gruppo ha preso il controllo di Mossul, cioè la seconda città più grande del Paese. Da allora una serie di città sono cadute nelle sue mani: mercoledì Tikrit, venerdì Jalula e Sadiyah, in una provincia etnicamente mista a nordest di Baghdad, e poi altri centri più piccoli. L’Isil, che ha promesso di applicare la sharia, ha inoltre annunciato giovedì di volere marciare verso la capitale Baghdad. Inoltre oggi, per il terzo giorno consecutivo, i jihadisti e l’esercito stanno combattendo per contendersi il controllo della raffineria di petrolio più grande del Paese, quella di Beiji, che normalmente produce circa 300mila barili di greggio al giorno e ora è stata bloccata. La perdita della raffineria di Beiji per il governo di Baghdad sarebbe un simbolo devastante di perdita di potere. I militanti hanno preso il controllo di parte della struttura, tanto che è stata anche issata una bandiera nera dell’Isil, ma l’esercito ne controlla ancora la gran parte.
LA SPACCATURA SUNNITI-SCIITI E IL GOVERNO AL-MALIKI. La conquista di città chiave da parte dell’Isil ha ulteriormente accentuato la spaccatura fra sunniti e sciiti all’interno del Paese: allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, gruppo sunnita, si stanno unendo lealisti dell’era di Saddam Hussein e altri sunniti; dall’altra parte a sostenere gli sforzi dell’esercito iracheno si stanno unendo milizie sciite e centinaia di giovani volontari, che hanno risposto all’appello dell’ayatollah Ali al-Sistani, il religioso sciita più rispettato del Paese. L’Isil combatte contro il governo centrale, guidato dal primo ministro sciita al-Maliki, e ha raccolto il sostegno di parte della comunità sunnita del Paese, che da tempo denuncia di essere discriminata dalle politiche dell’esecutivo, che definisce settarie. È dunque per questo che Obama nel suo discorso ha puntato sulla necessità di un governo inclusivo. Inoltre alla situazione già complessa si aggiunge un altro attore sul terreno, cioè i curdi dell’Iraq. I peshmerga, cioè i soldati curdi, si sono schierati contro i jihadisti, e parallelamente stanno approfittando della situazione per prendere il controllo di territori che rivendicavano da tempo, come il polo petrolifero di Kirkuk.