Caporalato a Foggia: indagata la moglie del capo Immigrazione al Viminale

Il dirigente del ministero dell'Interno Michele Di Bari si è dimesso

È sottoposta all’obbligo di dimora la moglie del prefetto Michele Di Bari, direttore del dipartimento per le Libertà civili e Immigrazione del ministero dell’Interno, coinvolta nell’indagine della Procura di Foggia contro il caporalato. Il prefetto si è dimesso dal suo ruolo e la ministra Luciana Lamorgese ha accettato la sua decisione. Sono dieci le aziende agricole coinvolte nell’indagine dei carabinieri di Foggia, sotto la direzione della Procura di Foggia. Per gli investigatori il giro d’affari era di 5milioni di euro. Sedici gli indagati, di cui 2 extracomunitari finiti in carcere e 3 ai domiciliari. I braccianti, secondo quanto hanno ricostruito, erano costretti a lavorare da mattina a sera per pochi euro: 5 euro per ogni cassa di pomodori. Ed erano costretti a pagare per il trasporto ai campi e per l’intermediazione con le aziende. Ai campi, però, erano portati con mezzi “in pessime condizioni d’uso”.

I migranti sono tutti residenti all’interno della ‘ex pista’ di Borgo Mezzanone, un campo dove vivono circa 2mila persone “in “pessime condizioni igienico sanitarie”. L’attività d’indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Foggia e condotta dai militari del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Manfredonia e da quelli del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Foggia, è iniziata nel luglio 2020, a seguito di alcuni servizi di osservazione, proseguiti anche dopo l’operazione denominata ‘Principi e Caporali’, conclusasi ad aprile di quest’anno con 10 misure cautelari e al controllo giudiziario di alcune aziende agricole.Militari dell’Arma e personale del progetto Supreme hanno effettuato una ispezione in alcuni terreni agricoli nel Comune di Manfredonia, riconducibili a un’azienda con sede in Trinitapoli. Nel corso di un appostamento, i carabinieri hanno individuato un uomo, un gambiano di 33 anni, identificato in seguito come ‘caporale’. Quando l’uomo si è accorto delle forze dell’ordine, è fuggito e sono stati gli stessi braccianti a raccontare agli investigatori di essere stati ‘reclutati‘ dal gambiano.

I braccianti hanno anche riferito che il gambiano si era occupato anche del profilo burocratico dell’assunzione, provvedendo all’invio dei documenti (a lui consegnati dai braccianti) e curando, per il suo tramite, anche la corresponsione della relativa retribuzione. Ai braccianti, inoltre, aveva dato specifiche istruzioni: in caso di controlli da parte delle forze dell’ordine, sarebbero dovuti fuggire nei campi. Il gambiano si faceva aiutare in gran parte delle sue attività da un 32enne senegalese, anch’egli domiciliato nell’ex pista. Era lui l’anello di congiunzione tra i rappresentanti delle varie aziende agricole operanti nel territorio nel settore agricolo e i braccianti. Alla richiesta di forza lavoro avanzata dalle aziende, i due si attivavano e reclutavano i braccianti all’interno della baraccopoli. Gli indagati dovranno ora rispondere dei reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, poiché ritenuti intermediatori illeciti e reclutatori della forza lavoro, utilizzatori della manodopera, addetti al controllo sui campi dei braccianti, in concorso.