Migranti, diocesi di Torino: “Modello sabaudo anche a Roma”

Intervista a Sergio Durando che illustra il progetto integrato sperimentato nel capoluogo piemontese e dice no a sgomberi

Dopo i fatti di Roma si guarda a Torino perché da diversi mesi si sta lavorando alle palazzine occupate dell'ex Moi (il villaggio costruito per le Olimpiadi del 2006 sugli spazi dell'ex mercato ortofrutticolo) dove attualmente ci sono circa 800 profughi che dovranno lasciare gli alloggi occupati così come è accaduto nella capitale. Non solo. Il Piemonte riceve tra il 7% e l'8% dei migranti sbarcati in Italia e di questi il 40% è destinato alla provincia di Torino dove i richiedenti asilo, contando anche le accoglienze Sprar, al momento sono circa 7mila. Finora qui, a differenza di altre città italiane, non ci sono state grosse tensioni e il modello di accoglienza sembra funzionare. Ne parla Sergio Durando, responsabile per la Diocesi di Torino della pastorale migranti.

Come la Diocesi di Torino affronta la questione migranti?
Da noi funziona il 'modello integrato'. Ossia la collaborazione con il maggior numero possibile di soggetti del terzo settore: cooperative, parrocchie, centri sociali. Sempre coordinati con le istituzioni e tenendo bene a mente che al centro c'è la persona: non numeri o pacchi da sistemare.

A Roma sono stati sgomberati in 400, all'ex villaggio olimpico dovranno andarsene più di 800 persone con il permesso di soggiorno umanitario…
Abbiamo firmato un protocollo di intesa tra Città, Regione, Prefettura, Compagnia di San Paolo a cui partecipa anche la Diocesi per programmare questo passaggio e inserirlo in una progettualità. Il tavolo tecnico si è riunito e continua a farlo tutte le settimane da quattro mesi e non è in programma nessuno sgombero a Torino. Non è un caso: dietro c'è una collaborazione costante e un apporto considerevole del terzo settore e del volontariato. Al centro è sempre messa la persona. Dietro al Moi ci sono le persone.

Qual è la carta vincente che finora ha evitato tensioni nel capoluogo sabaudo?
Oggi la differenza maggiore che sembra vedersi fra Torino e Roma è che qui a Torino c'è una progettualità e una capacità di dialogo e collaborazione tra terzo settore e istituzioni sia pubbliche che private. Per le persone dell'ex villaggio olimpico sono già attivi dei corsi di formazione da saldatori e da cuochi, mentre una decina lavora nei porti di Genova e Marghera. In tutto sono già stati coinvolti in percorsi di inserimento sociale e lavorativo 40 profughi. E prima sono stati fatti dei corsi di lingua italiana. Torino è e si conferma un laboratorio interessante".

Dove verranno sistemati i profughi?
Il Comune sta per uscire con un bando finalizzato all'emergenza abitativa che terrà conto anche di queste persone, inoltre metterà a disposizione qualche alloggio. La diocesi, dal proprio canto, mette a disposizione 80 posti a turnazione per tre anni: in totale 240 immigrati saranno accolti nelle parrocchie, e in altre strutture di proprietà della Diocesi (Città dei ragazzi del traforo del Pino, struttura in via Lascaris). Abbiamo tutti provato a evitare grosse concentrazioni in un solo luogo, le concentrazioni spesso sanno di ghetto. La progettualità è stata ed è lenta ma è un bene: non vogliamo infatti prendere decisioni a tavolino, ma cerchiamo di coinvolgere chi accoglie e chi è accolto in un lavoro lento ma fruttuoso di ascolto e di mediazione.

Qual è la soluzione per evitare tensioni sociali?
L'antidoto per far fronte a queste realtà sono i tanti che accolgono i pochi e non viceversa. Rispetto alle situazioni in cui centinaia di migranti sono gestiti da poche persone, nelle parrocchie una sola famiglia è accolta da decine di volontari.

Il piano Minniti è una svolta?
Prima di tutto mi chiedo dov'è l'Europa in tutto questo. Il famoso piano di relocation ha riguardato alla fine soltanto 7mila persone nel 2016 e nel 2017: che presa in giro è? Il piano Minniti può essere un piano europeo? Se la Libia trattiene i flussi migratori, in che cosa si trasformerà? In un grande centro di accoglienza o in una sorta di grande centro detentivo? Questo è lo scenario. Sembra abbia vinto la paura. Gli accordi con la Libia sono già stati fatti in passato: è una soluzione non soluzione. L'unica cosa importante è seminare l'idea che non stiamo parlando di numeri: perché il rischio è di prendere decisioni a tavolino, senza renderci conto di chi stiamo parlando".

E' preoccupato?
"Mi preoccupa la tensione sociale che si è sviluppata attorno alla questione migranti. C'è una grande responsabilità della politica, del mondo dell'informazione e del privato sociale. Non  si può affrontare sempre tutto come un problema emergenziale o un problema di sicurezza e controllo".