Bergamo, 11 set. (LaPresse) – La voce pacata, incrinata dalle lacrime trattenute a stento. Cosi Fulvio Gambirasio, il papà di Yara, cerca di ricostruire nel corso della sua testimonianza al processo a carico di Massimo Bossetti, le ultime ore di vita della figlia 13enne. “Quando mia moglie Maura mi ha chiamato intorno alle 20 per dire che Yara non era ancora tornata a casa – dice trattenendo a stento la commozione – ho capito subito che c’era qualcosa che non andava”. A quel punto Fulvio, che era in macchina con un collega e stava andando ad una cena con altri compagni di lavoro, chiede al collaboratore di riportarlo a casa e mentre la moglie chiama i carabinieri, comincia a cercare invano la figlia.
Nelle ore e nei giorni successivi le ricerche proseguono frenetiche. E mentre i carabinieri non tralasciano la pista dell’allontamento volontario, papà Fulvio è certo che la figlia, che “non aveva il brutto vizio di tardare” e al massimo faceva attendere i familiari “dieci minuti” prima di rientrare a casa, sia accaduto qualcosa di brutto. In quei giorni le lascia anche diversi messaggi alla segretaria del cellulare, sempre spento. “All’inizio erano messaggi scherzosi – ha proseguito in aula, tra le lacrime – poi disperati” e a quattro giorni dall’allontanamento da casa della 13enne il padre lascia inciso il messaggio: “Mi devo preoccupare?”.