Granzotto ricorda Montanelli: Un grande direttore all’antica

di Alessandro Di Liegro

Torino, 23 lug. (LaPresse) – Quattordici anni fa Indro Montanelli scriveva l’ultimo punto della sua biografia. Il 22 luglio del 2001, a 92 anni, si spegneva una delle penne più fulgide del giornalismo italiano, “condannato” – come diceva lui stesso – a questa professione “perché non saprei fare altro”. Per quarant’anni Paolo Granzotto gli è stato accanto come collega e amico, negli ultimi vent’anni è stato il suo vicedirettore a ‘Il Giornale’, la creatura di Montanelli, nata nel 1974 qualche mese dopo la sua fuoriuscita dal Corriere della Sera, di cui era firma di punta di editoriali, corsivi ed elzeviri.

Direttore, qual’è il ricordo che più la lega a Montanelli?

Sono molto imbarazzato riguardo domande del genere. Con Montanelli ho diviso la mia vita privata oltre che quella professionale. Andavo a lavoro con lui, facevo le vacanze a casa sua. Per me il Montanelli direttore si unisce al Montanelli compagno di una vita. Il grande insegnamento che mi dava come direttore lo dava come persona privata”.

Qual è stato il grande insegnamento di Montanelli come giornalista?

“Era una persona fuori dal comune con un grandissimo talento nella scrittura. Anche se al lettore appariva una scrittura di getto, era invece pensata, elaborata. A ‘Il Giornale’ avevamo due stanze comunicanti con la porta sempre aperta. A volte lo vedevo parlare agitando le bracca, recitando, leggendo una frase che aveva scritto perché voleva sentirne il suono. E se il suono non lo convinceva, poteva stare dieci minuti per decidere di togliere o mettere un aggettivo. Lavorava sulla scrittura, campo nel quale rimane insuperabile come giornalista”.

E come direttore, invece?

“Era un direttore molto poco direttore. Dava poche disposizioni. Tutti coloro che lavoravano al giornale, ed erano furbi, gli sottoponevano i pezzi, sia che fosse un importante pezzo di prima pagina o anche un pezzo di sport. Lui pazientemente leggeva qualsiasi cosa: correggeva, tagliava, aggiungeva e in questo, per chi voleva apprendere ed essere discepoli della scrittura montanelliana, era un grandissimo insegnamento”.

Quali erano le differenze fra il Montanelli uomo e il Montanelli giornalista?

“Non ce n’erano molte, in verità, no. Gli interessi come direttore erano gli stessi della persona. C’erano settori, anche del giornale, di cui non gli fregava niente. Per ciò che gli interessava era invece una persona curiosissima, leggeva molto, ma non tanto i romanzi. L’ultimo credo lo avesse letto vent’anni prima di morire. Leggeva saggi, articoli, era curioso di vedere gli altri. Aveva dei miti. Per esempio: prima di diventare direttore de ‘Il Giornale’, quando ancora era al ‘Corriere’, divenne celeberrimo per i ritratti, gli elzeviri della terza pagina. Quel tipo di taglio del ritratto, quel modo di fare biografia, l’aveva imparata da James Boswell, che scrisse ‘La vita di Samuel Johnson’ (colui che scrisse il dizionario britannico, ndr). Era una biografia bellissima che mi ha addirittura convinto a leggere. Due libri ponderosi. Le sue biografie erano piene di aneddoti, molto cattive. Indro sapeva essere maligno”.

Probabilmente non gli interessava essere simpatico.

“Beh in effetti aveva molti nemici. Conoscevo un sacco di gente che voleva tagliargli la testa (ride). Lui si defilava. Tornando ai suoi interessi, aveva dei fondamentali che leggeva sorridendo e si informava su tutta l’attualità. Seguiva i telegiornali”.

Come mai ha detto che Montanelli è stato un ‘direttore molto poco direttore’?

“Era un debole direttore all’antica. Il giornale in realtà lo faceva il condirettore Giangaleazzo Biaffi Vergani. Era lui l’uomo di macchina, il giornale lo faceva lui. Indro dava stimoli, proponeva argomenti, era un direttore poco attento”.

Come si troverebbe Montanelli alla direzione di un giornale ai giorni nostri?

“Non avrebbe mai potuto fare il direttore oggi. Adesso il direttore dev’essere manager, si deve occupare di marketing. Lui, invece, si occupava del bozzone di prima pagina. Quello era il vero Montanelli: lo guardava nell’insieme, leggeva nei particolari, meditava sui titoli. Quello lo sapeva fare e gli piaceva fare. Questo talento grafico, e al tempo stesso dialettico, gli veniva da una lunghissima amicizia e lavoro con Leo Longanesi. Lui era un mostro in queste cose: un grande inventore di titoli, di servizi. E Montanelli riconosceva che doveva tantissimo a Longanesi”.

Montanelli avrebbe quindi desistito al digital divide?

“Alcune propaggini di internet erano già arrivate. C’era già tutta la composizione digitale, eccetera. Anche se internet è scoppiata dopo la morte di Indro. Al massimo usava il fax, ma ci voleva uno che lo facesse funzionare. A lui serviva solo la macchina da scrivere (la fedelissima lettera22), il foglio e il pennarello per le correzioni. Più in là non è mai andato, nonostante io continuassi a decantargli l’utilità e la velocità dei nuovi sistemi di comunicazione non ci fu niente da fare”.

E sulla politica dei giorni nostri Montanelli cosa avrebbe detto? Lui così conservatore…

“L’unico liberale che riconosceva era quello risorgimentale e post risorgimentale. Era quel liberalismo lì, della gente che teneva alla dignità, alla parola data. Lui faceva la coda, pagava le tasse, non faceva il furbo. Non si è mai identificato in un conservatorismo o liberalismo dei suoi tempi, lui, che poi era la prima penna del giornale della borghesia italiana, ed era critico nei confronti della borghesia. È per questo che insieme a Longanesi fondarono il ‘Borghese’. C’è tutto nel titolo. C’è l’ironia e il disprezzo di entrambi nei confronti di una classe che ritenevano pavida, che fuggisse ai propri doveri. Se la Francia è diventato lo Stato che è, migliore dell’Italia nella forma-Stato, è perché è stata la borghesia a fare la Francia. Da noi la borghesia non ha fatto niente. Dopo l’unificazione, in cui la borghesia doveva dare un marchio, invece si defilò e mise in difficoltà lo Stato”.