Milano, 18 giu. (LaPresse) – Confermata la condanna di sentenza di primo grado per Fabio Riva. I giudici della Quarta Corte d’Appello di Milano hanno confermato il giudizio e condannato Fabio Riva, figlio dell’ex patron dell’Ilva Emilio Riva, deceduto il 30 aprile 2014, a 6 anni e 7 mesi. Fabio Riva – rientrato l’8 giugno in Italia dopo 2 anni e mezzo di latitanza a Londra e adesso in carcere a Taranto – deve rispondere delle accuse di associazione per delinquere e truffa ai danni dello Stato perpetrata dal gruppo Riva, attraverso l’Ilva di Taranto, che avrebbe ricevuto contributi pubblici senza averne diritto. In primo grado erano stati condannati anche Alfredo Lo Monaco, titolare della società svizzera Eufintrade Sa, e Agostino Alberti, ex dirigente di Ilva Sa (società svizzera del gruppo Riva), rispettivamente a 5 e a 3 anni. I giudici di secondo grado hanno confermato le condanne anche per loro.
Confermata anche la provvisionale da 15 milioni che Riva Fire dovrà versare nelle casse del ministero dello Sviluppo Economico a titolo di provvisionale.
Al centro della vicenda giudiziaria che ha investito Fabio Riva c’è una presunta truffa ai danni dello Stato dell’ammontare di circa 100 milioni di euro, che sarebbe stata realizzata ottenendo contributi pubblici erogati da Simest (controllata da Cassa depositi e prestiti), per il sostegno alle imprese italiane che esportano, come previsto dalla legge Ossola. Il gruppo della famiglia Riva avrebbe ottenuto indebitamente quei fondi, interponendo in una serie di operazioni Ilva Sa, società svizzera che non aveva alcun ruolo operativo o produttivo, ma risultava l’acquirente dei prodotti dell’Ilva, che poi rivendeva alle società estere che avevano siglato contratti con il gruppo.
La legge prevede che a fronte di dilazioni di pagamento tra i 2 e i 5 anni da parte di acquirenti esteri, le imprese italiane possano accedere a dei contributi erogati da Simest. Per l’accusa, però, l’Ilva non avrebbe avuto diritto a questo tipo di sostegno, data la natura dei pagamenti ricevuti. Ilva Sa, infatti, emetteva nei confronti di Ilva spa delle cambiali internazionali (promissory notes), che con l’interposizione della società svizzera Eufintrade, permettevano a Ilva spa di avere i requisiti per ottenere i contributi pubblici, quando la società Ilva Sa, che faceva parte dello stesso gruppo, incassava i pagamenti dall’estero senza ritardi o dilazioni.
Il danno per lo Stato sarebbe stato doppio: da una parte l’Ilva di Taranto ha ottenuto contributi ai quali non avrebbe avuto diritto, dall’altra i soldi ricevuti dallo Stato italiano venivano alla fine girati alla Ilva Sa in Svizzera, quando uno degli obiettivi della legge che sarebbe stata raggirata è quella di dare soldi al sistema imprenditoriale italiano perché contribuiscano alla sua crescita e non per finire oltre confine.