Conclave, perché i ‘luoghi comuni’ possono ingannare nelle previsioni

Città del Vaticano, 13 mar. (LaPresse) – Un Conclave nel segno dell’incertezza, dunque, quello che si è aperto poco fa e che dovrà dare alla Santa Chiesa il 266° successore di Pietro. Un’incertezza che non fu tale nel 2005, quando invece l’elezione del decano dei cardinali, Joseph Ratzinger, era nell’aria da giorni e sembrava segnare ancora prima del voto la continuità con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II (a sua volta eletto ‘a sorpresa’ nel 1979, dopo il brevissimo papato di Papa Luciani).

Così, previsioni e scenari fatti di indiscrezioni mostrano in queste ore la corda davanti all’attesa della fumata bianca. Incerte anche le analisi degli esperti e degli studiosi, poichè di Conclave in Conclave, la storia ha dimostrato che segnali e intuizioni hanno avuto, di volta in volta, significati addirittura contrastanti e contradditori.

In particolare, poi, si sono persi oggi alcuni dei punti di riferimento del passato, capaci – se non di anticipare l’elezione – di consentire la costruzioni di ipotesi e di ‘cordate’ affascinanti e improntate a una qualche coerenza. Non è più possibile, per esempio, tener conto della nazionalità o della comune appartenenza continentale. L’elezione di Karol Wojtyla, nel 1978, ha fatto venir meno non solo il ‘primato’ e la ‘primogenitura’ italiani, ma ha di fatto liberato il campo – forse definitivamente – del criterio ‘geopolitico’ come traccia fondamentale per la scelta di un Pontefice.

A dimostrazione di questa realtà, ecco il ‘papabile’ italiano Angelo Scola che, però, non gode dei favori di tutti i 28 cardinali italiani (sono il gruppo più forte), oppure ecco la non totale compattezza degli ‘elettori’ americani (il secondo gruppo nazionale del Conclave, 12 cardinali, con una propria autonomia, ma senza una coesione totale). Altrettanto errata appare la concezione di quello che si potrebbe indicare come il criterio della ‘novità assoluta’: “Ora la Chiesa ha bisogno di un sudamericano” – come, per esempio, sostengono alcuni – oppure: “Ora la Chiesa ha bisogno di un papa africano…”. In realtà, nel Conclave sono rappresentate 64 diverse nazionalità su 115 ‘elettori’ e questo rende evidente la fallacia di simili ragionamenti.

Ancora più anacronistico, poi, appare costruire oggi dei ragionamenti sulla vecchia divisione tra ‘Chiesa conservatrice’ e ‘Chiesa progressista’. Va detto, infatti, che ciò che – sulla scia del Concilio Vaticano II – fu chiamato ‘progressismo’ ecclesiale, non ha più adesso una rappresentanza precisa nel Collegio cardinalizio. Il segno evidente, allora, di una connotazione solo ‘conservatrice’? No, piuttosto di una Chiesa più cosmopolita e mediamente moderata, all’interno della quale però i cardinali si dividono diversamente su molte questioni (a cominciare da quelle etiche) e con un’alternanza addirittura personale di scelte e indicazioni ora più ‘conservatrici’ ora più ‘progressiste’.

In ultima analisi, continua a restare valido, per il Conclave, il motto popolare secondo il quale “chi entra Papa ne esce cardinale”. Un detto che, aggiornato ai tempi nostri, si può leggere anche così: non sempre l’eletto al soglio di Pietro è colui che era favoritpo all’inizio, e cioè il cardinale che aveva raccolto un ‘pacchetto’ considerevole di voti. Per essere il futuro Papa, infatti, ne servono almeno 77. Chi ne possiede già qualche decina è avvantaggiato, non ci sono dubbi, ma può anche accadere che si fermi a quel punto e sia scavalcato da nuove strategie del Conclave e degli altri ‘elettori’.