Milano, 30 mar. (LaPresse) – Sei ergastoli. Si è concluso così il processo di fronte alla prima Corte d’assise di Milano per l’omicidio di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia che fu uccisa nel 2009 e il cui corpo fu sciolto nell’acido. La condanna al carcere a vita è arrivata per Carlo Cosco, il compagno della donna, per i suoi fratelli, Vito e Giuseppe, e per altri tre: Massimo Sabatino, Carmine Venturino e Rosario Curcio. I giudici hanno anche disposto due anni di isolamento diurno per Carlo e Vito Cosco e uno per gli altri quattro. Alla lettura della sentenza ha assistito anche don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, nota associazione contro le mafie. “Dobbiamo inchinarci – ha commentato – davanti a una ragazza coraggiosa che ha avuto il coraggio di spezzare i cerchi mafiosi”. Denise Garofalo, infatti, la figlia di Carlo Cosco e di Lea Garofalo, che ha testimoniato contro il padre nel corso del processo, e si è costituita parte civile, era difesa dall’avvocato Vincenza Rando, che fa parte dell’ufficio di presidenza di Libera. Per lei la corte ha stabilito un risarcimento provvisionale di 200mila euro, che sarà determinato in via definitiva più avanti.
Lea Garofalo scomparve tra il 24 e il 25 novembre 2009 a Milano. Qualche anno prima la donna, di origini calabresi, aveva rinunciato al programma di protezione a cui era stata ammessa come collaboratrice di giustizia. Non si sentiva tutelata a sufficienza nonostante i frequenti cambi di vita e di città, e comunque voleva restare vicino alla figlia. L’ex compagno Carlo Cosco, ancora affiliato alla ‘ndrangheta, la fece rapire e uccidere. In aula, il 20 settembre scorso, Denise, 19 anni, raccontò di essere stata costretta per un anno intero a fare finta di non sapere che ci fosse suo padre dietro l’omicidio “per non fare la sua stessa fine”. “Per un anno non ho detto nulla a mio padre – spiegò Denise in aula – pur sapendo che lui e gli altri avevano ucciso mia madre. Cercavo di autoconvincermi che non era andata così, anche se sapevo che quella era stata la sua inevitabile fine”.
Al processo, come parti civili, oltre a Denise, hanno partecipato anche la madre della Garofalo, Santina, e la sorella, Marisa, e il Comune di Milano. Non sono state ammesse, invece, la Provincia di Crotone e la Regione Calabria, perché i fatti al centro del processo sono avvenuti tra Milano e Monza.
Il processo è stato celebrato in tempi record. Il primo dicembre scorso, infatti, dopo mesi di udienze, tutto ripartì da zero dopo che, pochi giorni prima, il presidente della corte, Filippo Grisolia si era dimesso. Grisolia infatti fu nominato capo di gabinetto del nuovo ministro della Giustizia Paola Severino. Il presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, nominò immediatamente il giudice Anna Introini a sostituirlo. Naturalmente i difensori dei sei imputati ne approfittarono: il tentativo era arrivare alla decorrenza dei termini e alla scarcerazione. A luglio 2012, infatti, sarebbero scaduti i termini della custodia cautelare. Così non avevano dato il consenso a tenere valide le prove raccolte in dibattimento, tra cui la testimonianza di Denise Garofalo, la figlia 19enne della vittima e del principale imputato, Lea Garofalo e Carlo Cosco. Col risultato che tutti i testimoni, Denise compresa, hanno dovuto raccontare, dolorosamente, di nuovo tutto in aula.
La Introini, per scongiurare il rischio scarcerazione, definì un calendario di udienze serrato che arrivava fino a oggi: prima udienza fissata per il 19 dicembre. A gennaio invece il processo si sarebbe celebrato il 10, il 16, il 20, il 23, il 27 e il 31. A febbraio udienza nei giorni 2, 3, 7, 9, 14, 15, 20 e 27. A marzo il processo si è svolto il primo, il 5, il 9, il 26, il 29 e il 30. Oggi, ultima udienza fissata, la sentenza. Se ogni processo mantenesse questo rigore, il problema della giustizia lenta in Italia sarebbe un ricordo.