Roma, 25 lug. (LaPresse) – La procura di Roma che da questa mattina inizierà ad indagare sull’incendio scoppiato ieri mattina all’alba alla stazione Tiburtina, a Roma, si troverà avanti alcune ipotesi che dovranno far luce sul rogo. Forse un corto circuito nella sala che controlla la circolazione dei treni, piena di cavi elettrici. Ma Rfi, Rete Ferroviaria Italiana, che ha istituito una commissione d’inchiesta, tra le possibili cause non esclude la manomissione o asportazione “di cavi o di collegamenti in rame o alluminio che provocano anomali funzionamenti degli impianti, anche in tempi differiti rispetto al momento del danneggiamento”. Un’ipotesi che potrebbe far pensare a una pratica molto diffusa a Roma e che ha già creato problemi, in passato, alla circolazione dei treni: quella dei furti di rame fatti prevalentemente da nomadi.
Le altre due piste di Rfi sono “fulminazioni dirette di cavi elettrici per scariche atmosferiche” e “contatti diretti su apparecchiature e/o parti di impianto di segnalamento a bassa tensione”. La procura attende anche la relazione dei vigili del fuoco che ieri hanno impiegato quasi 15 ore per domare la fiamme. Spento l’incendio, restano alcuni interrogativi da chiarire. Nessuna esplosione è stata avvertita dalla decina di tecnici che erano di turno quando si sono sviluppate le fiamme. Sono stati loro che hanno poi allertato i vigili del fuoco alla vista del fumo che fuoriusciva dalle cabine elettriche. Quando è scoppiato l’incendio non sarebbe scattato alcun allarme automatico.
Quel che è certo, che, per ora, gli investigatori, non hanno in mano elementi che possano far pensare ad un’origine dolosa del rogo, pur non escludendo nessuna pista. L’esito delle indagini è atteso con molta apprensione, visto che la stazione di Roma Tiburtina è destinata a diventare il principale scalo romano e snodo dell’alta velocità. Per questo il sospetto di un ruolo del movimento ‘No Tav’ nel rogo ha subito fatto il giro del web e delle tv. Ma le reazioni degli attivisti si sono subito fatte sentire. Su Twitter e su Facebook sono cominciati a circolare anche i post di replica. ‘Vergogna’ è una delle espressioni più adoperate e alcuni osservano che si tratta di un evidente tentativo di “criminalizzare il movimento”.