Il su e giù lungo un pallido corridoio d'ospedale, il blu dell'oceano immenso che balla sulle onde. Non si possono immaginare due luoghi così lontani tra di loro. Eppure Santiago Lange quella distanza l'ha colmata in poco più di un anno, e nel modo in cui ogni sportivo sogna: vincendo. Di più: conquistando un oro e l'eternità dei Giochi Olimpici. L'argentino, professione ingegnere navale, a 54 anni suonati e una battaglia contro un tumore al polmone lasciata alle spalle, si è preso sulle acque di Marina a Gloria quel bel po' di rivincite che attendeva di riscuotere da quei giorni grigi e tormentati, segnati dal timore per il futuro. L'esplosione di lacrime con cui ha bagnato quella vittoria così tenacemente inseguita, e giunta lottando contro avversari con la metà dei suoi anni, sono il doveroso sottofondo al messaggio più potente che la sua impresa sportiva lascia.
Che fosse la gara di Santiago, uno così innamorato della vita in mare da aver addirittura lasciato la moglie ("Ho vissuto per quattro anni su una barca che mi ha prestato un amico", svelò una volta), lo si era capito da subito. L'argentino, in coppia con la connazionale Cecilia Carranza Saroli, ha imposto il suo dominio sin dalla prima regata dalla classe mista Nacra 17, novità del programma olimpico della vela, nella quale a difendere i colori italiani hanno provato, senza fortuna, Vittorio Bissaro e Silvia Sicouri. L'ultimo atto della medal race ha certificato un trionfo, a suo dire, inatteso. "Non ce lo aspettavamo, è incredibile", ha raccontato il neo campione olimpico una volta tornato a terra e ricevuto il commosso applauso del pubblico, schierato tutto dalla sua parte. "Alla fine è stata una gara molto dura. Non ci sono parole per tutto questo affetto. La nostra squadra è stata eccezionale".
Non potevano mancare all'appello i figli, Yago e Klaus, in gara nella classe 49er: i due si sono tuffati per raggiungere il Nacra di papà e qui stringerlo nel più caloroso degli abbracci. E di fronte ad un epilogo così perfetto, anche gli avversari non hanno potuto che inchinarsi. Compreso chi ha visto l'argento sfuggire per un punto appena. Dall'australiano Jason Waterhouse, argento, si sono sentiti solo elogi per Santiago, "una leggenda vivente del nostro sport. Si merita la vittoria. Ha pagato i suoi debiti, è un grande uomo".
Accarezzato da un vento mai così piacevole, in volo sulle onde verso un orizzonte che man mano si colorava di oro, Santiago ha volto lo sguardo indietro. E ha ripensato al momento in cui tutto, all'improvviso, sembrò precipitare. Nel 2015 gli venne diagnosticato un tumore al polmone sinistro. Il male crudele, impronosticabile. Spietatamente indifferente alla forza di un atleta che nel suo curriculum contava già cinque partecipazioni ai Giochi e due medaglie, un bronzo ad Atene 2004 e uno a Pechino 2008. Il polmone venne asportato, e con esso si materializzò il rischio di chiudere in anticipo una gloriosa carriera da dominatore dei mari. La voglia di salire sull'aereo per Rio, però, è stata più forte di tutto: c'era una sesta Olimpiade da vivere. Ogni volta che la rievoca, l'argentino la definisce "tutto sommato una buona esperienza. Dura, ma dalla quale ho imparato molto. Sono stato fortunato che mi abbiano diagnosticato il tumore. Mi hanno operato a Barcellona e dopo cinque giorni già andavo in bicicletta. Un mese dopo, ero in vela". Ça va sans dire. Nel suo percorso di recupero la passione, quell'irrefrenabile desiderio di salire sulla sua barca, è stata semplicemente fondamentale. "Con la vela si impara a soffrire", ha spiegato. "Passi attraverso momenti difficili. Ti alzi in piedi e continui a spingere".