di Giampiero Gramaglia

Roma, 28 mag (LaPresse) – Tanti cadaveri così, non li avevo mai visti. E non li avrei neppure mai più visti dopo, io che non sono stato a Sebrenica, o in Iraq, sui luoghi degli eccidi tribali, etnici, religiosi dei tempi nostri. Erano distesi sulla spianata d’asfalto antistante lo Stadio, l’uno accanto all’altro: schiacciati, soffocati, senza segni di violenza sul corpo, sul viso. “Sono tutti morti”, mi disse il vigile del fuoco che sbarrava l’accesso a quell’ obitorio a cielo aperto, in una sera che c’era ancora un filo di luce e che l’aria era insolitamente mite per Bruxelles.

Provai a contarli, ma mi dovetti riprendere più volte: 12, 13, ma ne portavano ancora degli altri. Alla fine, le vittime di quella strage risulteranno 39, 32 gli italiani. Dalla tribuna stampa, dove ero arrivato per tempo, per seguire la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, non si era avuta subito la percezione della gravità di quanto era accaduto all’improvviso nel settore Z, alla nostra sinistra: uno spicchio di spalti prevalentemente juventino, che gli ‘ animals’, i tifosi del Liverpool, assiepati lì accanto, avevano aggredito e invaso, travolgendo la sottile inerme inadeguata intercapedine dei 9 agenti messi a separare le due tifoserie.

A seguire l’evento, era arrivato il gotha del giornalismo sportivo italiano: da lontano, vedemmo ondeggiare la folla; e gente abbandonare gli spalti, cercare scampo sulla pista d’atletica, fare gesti spaventati e disperati. In Italia, la gente ne sapeva più di noi: le telecamere avevano già zoomato sulla scena. “Vado a vedere che cosa succede”, dico all’inviato, che annuisce: io ero il corrispondente, dovevo occuparmi del contorno, non del match. In quel momento, il caporedattore chiama sul telefono fisso della postazione sportiva: la voce è concitata, “La Reuters dice che ci sono dei morti, parecchi”.

Scendo, esco fuori dallo stadio, un impianto vecchio, nelle curve fatiscenti, anche se ospitava tutte le partite della nazionale belga. E mi imbatto nel pompiere, nei cadaveri allineati, nei familiari e negli amici, in persone terrorizzate. La partita, intanto, è iniziata: si capisce dai boati che arrivano da dentro.

La gente che la segue, i tifosi juventini nella curva di fronte a quella della tragedia non sanno della gravità di quanto accaduto, del numero dei morti: da casa, nessuno può allora avvertirli coi telefonini.

Lì, nella curva dove non è successo nulla, c’è pure mio padre, con un mio amico: restano insieme fino alla fine, quando, conclusa la partita, celebrata la coppa (che molti non sanno insanguinata), tornati a casa, finalmente mi telefonano, per dirmi che stanno bene e per chiedermi che cosa sia mai successo. Da dove stavano, non s’era capito granché.

Fuori dallo stadio, raccolgo le informazioni che posso, qualche nome, qualche testimonianza. Poi, decido di lasciare lo stadio: bisogna chiamare al lavoro i colleghi, organizzare il giro degli ospedali e contattare la gendarmeria, i vigili del fuoco, il consolato. Rientrando in centro, incrocio le colonne di mezzi delle forze dell’ordine che raggiungono l’Heysel per garantire il deflusso separato delle due tifoserie, dopo la partita: una misura tardiva, quando il danno ormai è fatto.

Per tutta la notte, in ufficio, raccolgo e mando notizie: ci sono colleghi nei principali ospedali, uno al Ministero dell’Interno. Il bilancio delle vittime continua a salire. E, per tutta la notte, continuano ad arrivare in ufficio, spaventati, stravolti, stanchi, spesso dopo avere camminato ore e ore, gruppi di tifosi che non trovano più un amico, un familiare.

Uno cerca il figlio: lo troverà all’alba, già dimesso da un ospedale, pronto a tornare a casa. Un altro impallidisce, scorrendo l’elenco delle vittime che avevamo già dato: l’amico che cercava era uno di quelli che non ce l’avevano fatta.

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