La XVIII rischia di passare alla Storia per due primati non invidiabili. Il record precedente è dell'XI (1992/94) che durò circa due anni

Sembra passato un secolo dall'ultima campagna elettorale, quella in cui tutti o quasi annunciavano la propria 'rivoluzione' una volta al governo. Invece era solo lo scorso mese di febbraio: Salvini girava freneticamente da Nord a Sud per rastrellare ogni voto utile alla sua Lega, Di Maio prometteva il governo del cambiamento ai suoi elettori e Renzi si lanciava con i 100 punti del programma a caccia della conferma per il Pd. Dal 4 marzo ad oggi, però, le forze politiche non sono riuscite a trovare la quadra per formare una maggioranza e dare vita, dunque, a un nuovo Esecutivo. A Palazzo Chigi c'è ancora Gentiloni, dimissionario dal giorno dopo le elezioni politiche, ma per ora gli scatoloni restano nel suo ufficio. E rischiano di rimanerci ancora per qualche mese, perché la diciottesima legislatura potrebbe essere seriamente la più breve della storia.

Fino ad oggi il record (negativo) era stato conservato gelosamente dall'undicesima, quella dei governi Amato e Ciampi, durata in totale 722 giorni, dall'aprile 1992 all'aprile 1994. Tutti gli osservatori politici giudicarono quella la fine della cosiddetta 'prima Repubblica'. In quegli anni, infatti, scoppiò lo scandalo Tangentopoli e l'asse su cui poggiava le basi l'esecutivo, composto da Dc e Psi (più Psdi e Pli), fu spazzato via dall'inchiesta del pool di Milano nel giro di pochi mesi. A scuotere ulteriormente il mondo politico ci furono gli attentati di Cosa nostra, con la strage di Capaci in cui fu ucciso Giovanni Falcone e quello di via D'Amelio, dove un'autobomba ammazzò un altro servitore dello Stato, Paolo Borsellino.

Nel 2018, però, quel triste primato potrebbe essere battuto. Finora, infatti, sono quasi 50 i giorni dell'attuale legislatura, e se non si dovesse trovare una quadra con il Quirinale, costringendo il presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, la diciottesima conquisterebbe il 'cucchiaio di legno'.

Peraltro con un rapporto costi-benefici per i cittadini troppo alto. Ipotizzando che la prima data utile per il ritorno alle urne fosse il 24 settembre (dunque il Parlamento rimarrebbe in carica fino a ottobre), e calcolando solo le retribuzioni lorde dei 630 deputati e dei 318 senatori (compresi quelli a vita), più le indennità di carica e assegni di fine mandato, la cifra da sborsare per le casse dello Stato si aggirerebbe oltre i 136,2 milioni di euro. Arrotondati per difetto, ovviamente. Entrando nel dettaglio, al Senato la spesa è di 38.376.240, ottenuti sommando i 10.000 euro lordi di indennità mensile, 3.500 euro di diaria, 1.650 di rimborso forfetario mensile delle spese generali e 2.090 rimborso delle spese per l'esercizio del mandato. Il tutto moltiplicato per ogni senatore e poi per 7 mesi di legislatura. Di contro, alla Camera il conto è di 97.857.900, dovuto ai 10 mila euro lordi di stipendio, più 3.500 di diaria, 3.600 di rimborso delle spese per l'esercizio del mandato, 700 euro di rimborso spese telefoniche e 4.390 di assegno di fine mandato. Da moltiplicare per 630 deputati e 7 mesi di attività. Il ritorno alle urne sarebbe davvero una sconfitta per la politica, sotto ogni punto di vista.

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