Roma, 24 lug. (LaPresse) – “Ormai qui a Gaza tutto è a rischio. Dopo che hanno bombardato l’ospedale al-Aqsa e la scuola dell’Unrwa, nessun posto è sicuro, neanche l’ospedale al-Shifa”. A raccontare la situazione, raggiunto telefonicamente da LaPresse, è Nicolas Palarus, capoprogetto di Medici senza frontiere a Gaza. Quarantasette anni, ha alle spalle diverse missioni, tra le altre in Pakistan e Sud Sudan. Quindi alle situazioni difficili è abituato. Ma qui, spiega, sta diventando ancora più complesso. “La principale difficoltà è muoversi – racconta -. Ogni movimento è difficile e rischioso. Non possiamo pianificare i movimenti”. Msf dispone di una clinica a Gaza, che lavora da anni per la popolazione locale. E’ ad appena ottocentro metri dall’ospedale al-Shifa. Attaccato c’è l’ufficio dell’organizzazione umanitaria. E’ lì che dorme lo staff: nove persone in tutto, incluso Palarus. Alcuni francesi, un italiano, qualcuno da Nuova Zelanda e Australia.

“NESSUN POSTO E’ SICURO, NEANCHE LA SEDE MSF”. “Viviamo in una struttura che si suppone sia sicura – spiega -. Abbiamo anche dato le coordinate gps agli israeliani. Ma ho detto al mio team di tenere presente che nessun posto è sicuro e che anche quello potrebbe essere colpito. La mia sensazione è che persino lo Shifa potrebbe essere bombardato”. Anche della scuola dell’Unrwa, in effetti, l’esercito israeliano aveva le coordinate gps. Ma non è bastato.

“I FERITI DELLA SCUOLA UNRWA SONO ARRIVATI DA NOI”. Dopo il bombardamento, oggi, “li hanno portati tutti qui: i quindici morti e tutti i feriti – racconta Palarus -. Tutti donne e bambini. Quello che è successo è inaccettabile. Quando sono arrivati abbiamo fatto il triage e abbiamo gestito l’emergenza, ma allo Shifa la situazione è molto caotica”.

APPENA ARRIVATO QUANDO E’ SCOPPATA LA GUERRA. Quando è scattata l’offensiva aerea israeliana, Palarus era arrivato da appena dieci giorni a Gaza. Era stato inviato per una missione di routine di sei mesi. Ma si è trovato a gestire tutt’altro che routine. Ieri, continua, alla clinica di Msf sono arrivate tre bambine, tra i 7 e gli 11 anni, col papà. Giocavano sul terrazzo quando è arrivato un missile. Sono gli unici sopravvissuti della loro famiglia. “E’ triste”, racconta. Alla clinica si curano ustioni e altre ferite di medio periodo. Ma tanti pazienti non tornano. “Ne perdiamo il 70% – dice -. Iniziamo le terapie ma molti non riescono più a venire perché hanno paura di finire uccisi dalle bombe. Non so neanche dire se siano vivi o morti”.

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