Roma, 23 set. (LaPresse) – “Perché scalare una montagna? Perché è lì”. Era questa una delle citazioni preferite di Alberto Magliano, l’alpinista morto in Nepal, sul monte Manaslu, dopo che una valanga ha travolto il campo tre dove si trovava insieme ad alpinisti di altre spedizioni. Le parole cui Magliano si ispirava erano di George Leigh Mallory, precursore del moderno himalaysmo. Nato a Trieste il 24 novembre 1945, Magliano viveva a Milano dove è stato dirigente d’azienda prima e consulente poi. Si era sposato due volte e aveva una figlia, Silvia. L’alpinismo era la sua passione, non la sua professione, ma i risultati raggiunti negli anni erano equiparabili a quelli dei grandi alpinisti italiani che hanno fatto la storia, come Silvio Gnaro Mondinelli. E così, all’età di 66 anni, si trovava sul Manaslu con lui.

Magliano iniziò a praticare l’alpinismo tardi, a 35 anni, in seguito all’incontro con Paolo Masa, arrampicatore e guida alpina, che lo fece avvicinare a questo mondo. Alberto considerava la montagna “il luogo della mia libertà”, come lui stesso scriveva sul suo sito ufficiale. “L’alpinismo così interpretato – scriveva ancora – diventa una straordinaria attività di vita, molto più di uno sport, ma nulla a che vedere con un lavoro: un modo di vivere, forse addirittura una visione del mondo”.

Poco dopo essersi avvicinano al mondo della montagna e dell’alpinismo, elaborò il progetto ambizioso di scalare le Seven Summits, i picchi più alti di ogni continente e divenne il primo alpinista non professionista ad aver portato a termine l’impresa. Fra le sette vette più alte ci sono l’Everest, l’Aconcagua in Sud America e il Kilimangiaro in Africa.

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