Il 61enne al centro dell'inchiesta contro il clan che ha portato a 31 arresti

"Io quando mi sento tradito da qualcuno che potrebbe essere anche mio padre o mio figlio, gli sparo!". Così parlava, intercettato, il boss 61enne Alessandro Fragalà, al centro dell'inchiesta dei carabinieri, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, che ha portato a 31 arresti per associazione di tipo mafioso, e reati, aggravati dal metodo mafioso, di estorsione, danneggiamento seguito da incendio, detenzione e porto abusivo di armi, traffico di stupefacenti, trasferimento fraudolento di valori e favoreggiamento.

"Se mio figlio cammina con me – diceva il boss nella conversazione intercettata nel 2015 – facciamo il reato insieme e mi tradisce, io lo ammazzo". Gli affiliati del clan, sempre stando alle indagini, giuravano con il sangue, un fazzoletto di seta annodato e l'immagine di San Michele Arcangelo.

Gli arresti sono scattati dopo anni di indagini che hanno messo in luce il controllo che il clan aveva su zone di Roma e, in particolare nei comuni di Pomezia, Torvaianica e Ardea.

"Qua se c'è qualcuno che comanda sono i Fragalà e basta! – dicevano gli esponenti del clan intercettati -. A Torvaianica abbiamo sempre comandato noi!".

Le indagini, che si sono avvalse delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, hanno consentito di ricostruire l'organigramma del clan, individuando Alessandro Fragalà, il nipote 41enne Salvatore Fragalà, e Santo D'Agata, 61 anni, i capi del gruppo che era in costante contatto con ambienti mafiosi catanesi sia per la gestione dei traffici di droga, sia per il reclutamento di 'manodopera Criminale'. Dalle indagini sono emerse decine di estorsioni del clan ai danni di imprenditori e scorte di armi ed esplosivi che il gruppo usava per attentati e intimidazioni.

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