Non ha ancora avuto risposta la rogatoria partita da Roma a metà marzo

Quattordici mesi fa veniva ritrovato, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria il corpo massacrato di Giulio Regeni: da allora una lunga e complessa indagine ha fatto la spola tra Egitto e Italia, e tante manifestazioni di solidarietà verso la famiglia del ricercatore si sono susseguite, attraverso le quali migliaia di cittadini sui social e nelle piazze hanno chiesto di sapere la verità sulla morte di Giulio. La verità sulla morte di Giulio oggi è più vicina, ma ancora non c'è, ed è indubbio che molte falsità siano arrivate in questi quattordici mesi dall'Egitto.

Non ha ancora avuto risposta la rogatoria partita da Roma a metà marzo, e diretta all'autorità giudiziaria del Cairo per provare a raccogliere nuove prove indispensabili per fare chiarezza sull'omicidio. La procura di Roma crede che dagli apparati della National Security egiziana e dagli agenti del Dipartimento investigazioni municipali del Cairo (almeno una decina tra polizia e servizi segreti le persone coinvolte nell'inchiesta) siano arrivate, negli interrogatori effettuati dai magistrati del Cairo, innumerevoli falsità nel corso delle indagini.

Dopo oltre un anno di indagini, seguite in Italia da polizia dello Sco e carabinieri del Ros, la procura di Roma è tornata, il 15 marzo scorso, a chiedere verbali di interrogatori (cinque ne sono arrivati, ma ne mancano altrettanti all'appello) e atti dell'indagine che l'autorità giudiziaria egiziana ha raccolto tra mille false piste.
Intanto, sono almeno tre i passi in avanti, forse decisivi, fatti di recente dagli inquirenti di Sco e Ros che indagano sulla morte del ricercatore friulano, e proprio da queste nuove certezze parte l'ultima rogatoria spedita da Roma al Cairo nella quale la procura chiede ai colleghi egiziani una serie di verbali degli interrogatori di esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi coinvolti nella tragica vicenda di Giulio. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco, che coordinano l'indagine italiana sul caso, chiedono eventuali dossier compilati dalla National security su Giulio, e video registrazioni oltre a quella, già nota, dell'incontro con il rappresentante del sindacato degli ambulanti che è stata diffusa a gennaio.

Chi indaga è convinto che Giulio sia stato attenzionato da polizia e servizi egiziani non per un breve periodo, come ammesso dalle autorità del Cairo, ma per almeno due mesi prima di essere rapito, seviziato e ucciso; inoltre dopo una serie di indagini sui tabulati telefonici effettuate in Italia, appare chiaro il collegamento tra gli agenti che si occuparono di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti egiziani coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi il 24 marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l'omicidio di Giulio (in casa di uno dei banditi vennero trovati i documenti del ricercatore); la terza certezza di chi indaga è legata agli ultimi terribili giorni di vita del ricercatore: il luogo doveva essere idoneo a porre in essere, lontani da occhi indiscreti, quelle atroci torture i cui segni rimasero sul cadavere di Giulio. Non poteva trattarsi di una casa, e, secondo chi indaga, solo un ambiente sicuro, di un apparato pubblico, poteva garantire le caratteristiche indispensabili per gestire il sequestro durato una settimana senza esser visti, né sentiti.

Appare ormai certo che Giulio è morto per gli studi che faceva, per quella ricerca sul campo cui lavorava con determinazione e serietà, che lo ha messo in contatto con persone che ne hanno segnato il tragico destino. Il video girato nel dicembre del 2015 da Mohammed Abdallah, il responsabile del sindacato ambulanti con il quale il giovane era entrato in contatto, e diffuso nel gennaio scorso, dimostra non solo che il ricercatore era attenzionato dalla polizia, ma che, poco prima della sua morte, qualcuno provò a incastrarlo. Abdallah nel video proponeva di usare a fini personali, in modo illegale, soldi che Giulio, grazie a una fondazione britannica, voleva far arrivare al sindacato.

Forse fu proprio il rifiuto di Giulio a segnarne il destino: forse, quando Mohamed Abdallah capì che non avrebbe ricevuto per sé almeno una parte di quelle diecimila sterline, decise di denunciare Giulio per accreditarsi con la National security come un informatore adeguato. La verità, sulla morte di Giulio, non c'è ancora ma appare più vicina, e il passo è importante se si pensa alle tante false piste percorse nei primi mesi di indagini: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, con il passare delle settimane si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l'aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte.
Il 24 marzo del 2016 anno arrivò l'ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c'erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane.

Dopo mesi di ricerche sui tabulati telefonici, gli inquirenti hanno trovato i collegamenti tra le due piste che vedono coinvolti agenti della National security e Dipartimento investigazioni municipali del Cairo. È in quelle telefonate che è ancora celata la verità sulla morte di Giulio.

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