Il 29 luglio 1983 Cosa Nostra mise fine alla vita del giudice: saltò in aria in una 126 imbottita di tritolo in via Pipitone Federico, a Palermo con la scorta e il portiere di uno stabile

Il 29 luglio di 33 anni fa Cosa Nostra mise fine alla vita del giudice Rocco Chinnici. Saltò in aria in una 126 imbottita di tritolo in via Pipitone Federico, a Palermo, il 'giudice buono', la stessa strada in cui viveva: un'esplosione che uccise anche Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, i due carabinieri della sua scorta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi.

Figura centrale già ai tempi del maxiprocesso a Cosa Nostra, ora, a distanza di anni, quella di Chinnici rimane un'immagine ferma ed emblematica della lotta alle mafie. Non solo per la morte atroce che fece da apripista alla stagione delle bombe, che coinvolse Palermo per un intero decennio, ma soprattutto per le innovazioni che Chinnici, in qualità di giudice istruttore portò in Procura nel capoluogo siciliano. Fondamentale, infatti, fu sua l'intuizione di applicare ai processi contro Cosa Nostra un metodo di lavoro già adottato a Torino da Giancarlo Caselli per i processi di terrorismo: quello che caratterizzò il cosiddetto pool antimafia.

Un ambiente di lavoro non rigidamente chiuso, ma aperto a scambi, di informazioni, di fascicoli, di notizie:l'obiettivo chiaro di Chinnici era rendere tutti parte di un sistema di lavoro, di modo che la morte o l'isolamento di uno dei magistrati del pool non avrebbe vanificato il lavoro. Se tutti erano a conoscenza di tutto, le informazioni non sarebbero andate perse anche qualora uno dei magistrati fosse finito nel mirino delle cosche.

Da quella brillante intuizione è passata poi la storia del nostro Paese: di quel pool fecero parte tanti magistrati, non ultimi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che seguiranno la stessa tragica sorte di Chinnici. E poi l'arrivo di Antonino Caponnetto che proprio dopo l'omicidio di Chinnici ne rileverà la posizione dando nuova linfa ai lavori del pool dopo la tragica scomparsa del suo predecessore.

Ora, a 33 anni di distanza dalla sua morte, rimane ancora più difficile ragionare sul contrasto a Cosa Nostra senza le intuizioni di Chinnici, la cui dedizione al lavoro nonostante i rischi era ben nota: "Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare", ebbe modo di dire relativamente ai rischi che comportava il suo lavoro a Palermo.

Un insegnamento morale, il suo, che non si limitò al comparto professionale, incidendo profondamente sul processo di sviluppo e maturazione dell'antimafia sociale. "Sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante", raccontò Chinnici in una sorta di testamento personale a Pippo Fava, il poliedrico giornalista, anch'egli vittima, nel 1984 della violenza di Cosa Nostra.

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