Arpad Weisz, Werther Gaiani, Armando Frigo, Carlo Castellani, Giuseppe Ferrari e Ferdinando Valletti hanno detto addio al pallone per difendere la patria durante il secondo conflitto mondiale. Nel giorno della Memoria, anche lo sport ricorda

Ci sono storie che andrebbero sempre raccontate e che conoscono solo in pochi. Forse perché non sono recenti o gli sportivi non si chiamano Cristiano Ronaldo o Messi. Ci sono storie che hanno come elementi principali il frastuono delle bombe, l'odore della polvere da sparo, il sangue e la morte. Molti calciatori del passato hanno detto addio prima del tempo alla loro passione, che ha la forma rettangolare di un campo da gioco ed è rotonda come un pallone. Una gioia chiamata calcio. Sono stato chiamati alle armi per difendere la loro patria durante la seconda Guerra mondiale. Alcuni di loro sono stati catturati dai soldati nazisti e in un semplice schiocco di dita la loro vita è volata via troppo in fretta. 

Dalla scudetto ad Auschwitz: la mente geniale di Arpad Weisz – Che Arpad Weisz sia stato uno dei maestri che rivoluzionarono il calcio europeo lo dimostrano i fatti. Nato da genitori ebrei a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1986, non ebbe molta fortuna come calciatore, ma ebbe una grande carriera da allenatore. Dopo aver giocato come professionista nel Torekves, partecipò alla prima Guerra mondiale come volontario nell’esercito austro-ungarico e venne catturato dai soldati italiani il 28 novembre 1915, nel corso della quarta battaglia dell'Isonzo sul monte Merzli. Weisz venne internato a Trapani, ma riuscì a sopravvivere. Quindi, finito il conflitto, riprese a giocare nel suo Paese prima di arrivare in Italia nel 1925, acquistato dall'Inter. I problemi fisici lo costrinsero al ritiro l'anno dopo, ma la bontà e la generosità del giovano ebreo erano così alte che i nerazzurri lo promossero ad allenatore. E mai scelta fu più giusta: prima fece esordire un talento come Giuseppe Meazza (che oggi dà il nome allo stadio di Milano), poi vinse lo scudetto nel 1929. A 34 anni era già il più giovane allenatore di sempre ad aver vinto il Tricolore. 

Dopo la positiva parentesi all'Inter, Weisz allenò anche Bari, Novara e Bologna. E proprio in Emilia arrivarono le migliori soddisfazioni: dalla vittoria dello scudetto nel ’34 con soli 14 giocatori in rosa, a quella di tre anni dopo nella finale del Torneo dell'Expo contro il Chelsea. In finale il Bologna strapazzò il club londinese 4-1 alzando la coppa al cielo di Parigi. Tutto bello, fino però alla promulgazione delle leggi razziali, che imposero agli ebrei stranieri di lasciare l’Italia. Weisz guidò il Bologna per l’ultima volta il 22 ottobre 1938, gioco del destino proprio contro la sua ex squadra: l'Ambrosiana-Inter (chiamata così per ragioni politiche legate al fascismo). Il suo sostituto, l’austriaco Hermann Felsner, riuscirà a vincere lo scudetto al termine della stagione. 

Il 10 gennaio 1939, Arpad lasciò il capoluogo emiliano con moglie e figli in direzione Parigi. La Francia però fu solo una tappa intermedia e così il 16 febbraio la famiglia Weisz raggiunse l’Olanda dove l’ungherese tornò ad allenare il Dordrecht. Anche qui l'uomo dei miracoli diventò un eroe locale: conquistando la salvezza nello spareggio contro l'Uvv e due quinti posti nella massima serie con una squadra fatta da soli dilettanti e studenti. Lo stadio era di appena 5mila spettatori e in aperta campagna. 

Quelli furono gli ultimi sorrisi di Weisz. La Germania infatti invase l’Olanda. Le leggi razziali nel settembre 1941 gli provocano il divieto di lavorare e l’espulsione dalla scuola dei figli Roberto e Clara. Il 2 agosto 1942 arrivò l'epilogo: la famiglia Weisz venne arrestata dalla Gestapo e dal campo di raccolta di Westerbork, il 2 ottobre 1942, i quattro vengono caricati su un treno blindato con destinazione Auschwitz. Dopo tre giorni di viaggio in condizioni inumane, Arpad venne dirottato ai lavori forzati nell’Alta Slesia. Elena, Roberto e Clara, invece, raggiunsero Auschwitz-Birkenau, dove vennero subito uccisi in una camera a gas. Deportato poco dopo nel terribile campo di concentramento, Arpad Weisz resistette fino al 31 gennaio 1944, quando morì di stenti tra atroci sofferenze. Il suo ricordo vive comunque tuttora oggi in un vero e proprio manuale, "Il giuoco del calcio", che scrisse nel 1930 insieme a Aldo Molinari, allora direttore tecnico dell’Ambrosiana-Inter. Una vera e propria Bibbia del calcio che anticipa di decenni molte delle tendenze più interessanti del football contemporaneo.

Werther Gaiani, il più giovane esordiente e marcatore di Serie A e B – A Molinella, in una piccola cittadina di 15mila abitanti della provincia bolognese, nacque il 29 giugno 1925 Werther Gaiani. Un giovane che sin da piccolo dava calci al pallone all'oratorio, sognando, come tanti altri giovani, di giocare in Serie A. I residui della prima Guerra mondiale ancora si facevano sentire nel paese, ma tutto sommato il clima, a sette anni dal conflitto, stava tornando più distensivo. 

A 14 anni Gaiani era già troppo forte per i suoi coetani, così i dirigenti della squadra del paese decisero di farlo allenare con i grandi. Il momento che svoltò in positivo la sua carriera arrivò il 2 giugno del 1940, quando la Molinella (squadra del comune più piccolo tra quelli dei campionati professionisti fino all’avvento del Castel di Sangro nel 1995) giocava in casa contro la Pro Vercelli. Schierato titolare dall'allenatore ed ex nazionale italiano Pietro Genovesi (che vinse due scudetti al Bologna) Gaiani è tuttora oggi il giocatore più giovane ad aver esordito in Serie B a soli 14 anni, 11 mesi e 4 giorni. Un record imbattuto anche in A. La scelta si rivelò azzeccata perché all'86', quando la Molinella strapazzava 5-1 la Pro Vercelli, il giovane calciatore segnò la sesta definitiva rete stabilendo un altro record che ancora oggi resiste: è il più giovane marcatore dei due campionati principali.     

Dopo essere passato al Forlì nel campionato 1942-43, Gaiani realizzò 15 reti e l'anno seguente fu uno dei protagonisti. Così nel 1944 Ettore Puricelli, storico centravanti uruguaiano del Bologna, si rifugiò a Molinella da alcuni parenti della moglie per sfuggire ai bombardamenti, divenuti sempre più insistenti. Il campionato era fermo per lo scoppio del secondo conflitto, ma il pallone continuava a rotolare qua e là nei campi. Puricelli giocò alcune amichevoli indossando la maglia del Molinella insieme a Gaiani, che gli faceva da spalla in attacco. Le sue giocate incantarono talmente l'uruguaiano che, dicono le voci, convinse i dirigenti del Bologna (allora squadra tra le più prestigiose d'Italia che aveva già vinto sei campionati di A) a tesserare il ragazzo

Il sogno di scendere in campo nel massimo campionato, però, non arrivò mai. La stagione 1944-45 non venne disputata. E mentre Gaiani attendeva con speranza la fine della guerra, una bomba scesa nel quartiere della Bolognina, il primo settembre 1944, uccise circa 100 persone. Tra uomini donne e bambini, c'era anche Werther. Il sogno del più giovane esordiente e marcatore di A e B, così, si interruppe per sempre.  

Armando Frigo, l’italoamericano che decise di difendere la patria su un vagone di un treno – A Clinton, un paese di 5mila abitanti dell'Indiana (Usa), quasi al confine con l'Illinois, il 5 agosto 1917 nacque da due emigrati italiani Armando Frigo. Ritornato in Italia insieme ai genitori nel 1925, piano piano si rivelò uno dei centrocampisti più promettenti del calcio dell'epoca. Dopo aver esordito giovanissimo a 18 anni da compiere nel Vicenza passò alla Fiorentina nell’estate 1939, dove esordì in Serie A e vinse la Coppa Italia l’anno seguente, il primo titolo della storia dei Viola

Che Frigo morisse durante la seconda Guerra mondiale era scritto nel destino. La sua vita cambiò precisamente un pomeriggio di dicembre del 1941. Durante un viaggio in treno, mentre tornava da Firenze a Vicenza, l'italoamericano si trovò sullo stesso vagone insieme a un altro coetaneo che aveva una gamba amputata. I due iniziarono a parlare e alla fine di quel dialogo, durato circa due ore, Frigo non trattenne le lacrime e prese la decisione: rinunciare alla sospensione dal militare per motivi di studio e accettare la chiamata alle armi, lasciando il calcio e partendo per il fronte. Lo Spezia fu quindi la sua ultima squadra nella stagione 1942-43, dove giocò solamente 6 partite.

Così dalla leva passò alla scuola Allievi ufficiali, dove divenne sottotenente e venne assegnato alla Divisione di fanteria “Emilia”. Frigo fu inviato a 1300 metri di altezza sulla cime delle montagne di Crkvice, in Croazia, a 40 chilometri dalle Bocche di Cattaro. Il compito del suo plotone era di difendere il passaggio obbligato dal passo che prendeva il nome del paese, per dar modo ai soldati "dell’Emilia", agli alpini della divisione "Taurinense" e ai partigiani montenegrini di sganciarsi dai tedeschi che li avevano accerchiati. Le truppe italiane avevano, alle Bocche di Cattaro, due navi che le aspettavano per portarle in patria, dopo la firma, l'8 settembre 1943, dell'armistizio tra Italia e angloamericani. Frigo e gli altri resisterono eroicamente fino all'arrivo dell'aviazione tedesca con gli Stukas, i bombardieri monomotore. Molti morirono. Quattro ufficiali italiani, invece, vennero catturati di sorpresa dai soldati nazisti. C'erano Arcuno Pietro, Sedea Luigi, Guido Valentini e anche Armando Frigo. Per loro purtroppo non ci fu scampo. Vennero fucilati e la loro vita volò via il 10 settembre 1943. Un colpo alla testa non lasciò scampo all’ex promessa della Fiorentina e del calcio italiano.

Carlo Castellani, l’attaccante che evitò il campo di concentramento a suo padre – Carlo Castellani, nato il 15 gennaio 1909 a Montelupo Fiorentino, fu una delle colonne storiche dell'Empoli. Attaccante come Gaiani, fu il miglior marcatore del club toscano con 61 gol in 145 presenze fino a fine 2011, quando Francesco ‘Ciccio’ Tavano (168 reti in 311 match) gli rubò il primo posto. Con la moglie Irma, i due figli Carla e Franco e il papà David visse a Fibbiana, a due passi da Empoli. 

Nella famiglia Castellani l'unico acceso antifascista era suo padre, mentre gli altri, tra cui anche Carlo, non lo erano assolutamente. All'alba dell'8 marzo 1944, le forze dell'ordine si presentarono in casa Castellani con l’obiettivo di portare con loro David, che però era a letto malato. Pensando dovesse sbrigare qualche questione in caserma, Carlo si offrì al suo posto, ma la sua decisione si rivelò tragica. 

Dal uno dei binari della stazione di Santa Maria Novella a Firenze, Castellani venne deportato nel campo di concentramento di Mauthausen (Austria) viaggiando per tre notti e tre giorni su un treno adibito al trasporto del bestiame. Venne poi trasferito al campo di lavoro di Gusen, dove costruì pezzi di aereo e mitragliatrici, ma le condizioni di lavoro erano disumane. Castellani, infatti, mangiava solo pane nero e margarina. Le sue condizioni peggiorarono sempre di più e l'11 agosto 1944 lo portarono alla morte. Come omaggio, anche lo stadio di Montelupo Fiorentino, suo paese natale, gli venne dedicato

Il genovese Giuseppe Ferrari e la Sicilia maledetta – Il genovese Giuseppe Ferrari iniziò la sua carriera nella Rivarolese, club allora in terza serie (oggi Eccellenza) di uno dei quartieri della città in Valpolcevera (a poche centinaia di metri da dove oggi, ci sono i monconi del Ponte Morandi). Le buone prestazioni con la squadra e il quinto posto nel girone D della Prima Divisione 1930-31 lo misero in mostra, tanto che a ingaggiarlo fu il Genova 1893 (l'attuale Genoa calcio). Di ruolo attaccante, esordì in A il 5 marzo 1893 nella vittoria dei Grifoni sul campo di Casale per 3-2. Due anni dopo Ferrari passò alla Sanremese, società con cui vinse il girone C di Serie C 1936-37. Nel 1938 fu la volta dello Spezia in Serie B, dove rimase tre stagioni segnando 6 gol in 59 match. La Carrarese fu la sua ultima squadra dove giocò nella stagione 1941-42 prima di impugnare le armi.  

Arruolato con il grado di Tenente nel 146esimo reggimento costiero, era in servizio in Sicilia, a Siracusa, quando gli angloamericani iniziarono le operazioni di invasione in Italia nella notte tra il 9 e 10 luglio 1943. Il giorno seguente Ferrari si trovava in difesa su un ponte del fiume Anapo, a due passi dal porto della città. La sua postazione, però, fu travolta da una bomba delle truppe anglocanadesi al cui comando vi era il generale Bernard Law Montgomery. Per Ferrari ed altri suoi compagni non ci fu scampo. Tempo dopo venne decorato per il coraggio dimostrato con la medaglia d'Argento al Valore militare.

Ferdinando Valletti, l’uomo che scappò dalla morte – Ultima (ma ce ne sono tante altre)è la storia di Ferdinando Valletti che, fortunatamente, ebbe un epilogo positivo. Il mediano veronese, nato il 5 aprile 1921, esordì prima con l'Hellas, poi giocò al Seregno e, nella stagione 1942-43, arrivò al Milan. Giocò in rossonero per due stagioni, ma una lesione al menisco e la deportazione nazista misero fine alla sua carriera. 

Valletti venne catturato nel marzo 1944 dalle SS tedesche per aver aderito a uno sciopero nello stabilimento dell'Alfa Romeo di cui era dipendente. Venne prima inviato al carcere di San Vittore, sempre a Milano, poi deportato al campo di concentramento di Mathausen (come Castellani) su un treno però partito dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Dall’Austria, Valletti venne trasferito in Germania al campo di Gusen, dove aveva il compito di scavare gallerie che dovevano servire a nascondere alcune fabbriche belliche tedesche. 

L'ex centrocampista riuscì a tornare a casa grazie anche alla fortuna: nel campo sapevano dei suoi trascorsi al Milan. Per questo venne chiamato da un Kapò a sostituire un giocatore nella squadra delle SS. Così, gli venne concesso di lasciare il lavoro alla cava di pietra e di passare a fare lo sguattero nelle cucine, riuscendo così a sfamarsi e a portare cibo anche ai compagni, salvando la vita ad alcuni di loro. 

Il 5 maggio 1945, Valletti venne liberato dalle truppe alleate e due anni dopo fu onorato della medaglia garibaldina al Valore militare, oltre al brevetto di Partigiano combattente. Nel 1979, su richiesta dell'allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, venne insignito con la decorazione della Stella al merito del lavoro. Dopo essere tornato prima a lavorare per Alfa Romeo negli anni '70, poi diventato professore, venne colpito dal morbo di Alzheimer nel 2000, malattia che lo portò alla morte nel 2007.

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