Il 33,6% dei detenuti italiani è rappresentato da stranieri: si tratta di 18.074 persone, tra le quali 900 donne

Il 33,6% dei detenuti italiani è rappresentato da stranieri: si tratta di 18.074 persone, tra le quali 900 donne. Una quota che, seppur in riduzione (era il 37% nel 2010), rimane ancora più alta della media europea del 21%. E' quanto è emerso dal XIV Congresso nazionale della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) che si è svolto a Torino e che è stato dedicato alla salute della popolazione immigrata in restrizione di libertà. I dati, evidenzia la Simm, non indicano una maggiore propensione degli stranieri a trasgredire la legge, nè "una maggior inclinazione a commettere reati rispetto a quella attribuibile agli italiani", ma "si tratta di un fenomeno in gran parte ascrivibile al processo di discriminazione e criminalizzazione della figura dell'immigrato che permea l'intero sistema penale italiano".

Come ha spiegato Daniela Ronco, sociologa del diritto dell'osservatorio Antigone di Torino, questa problematica "incide non soltanto in fase di esecuzione della pena, ma nasce fin dal momento della scrittura delle leggi, come la penalizzazione del reato di clandestinità) e continua nel momento della loro applicazione: sono numerosi gli studi che rilevano la maggior predisposizione delle forze dell'ordine ad eseguire controlli sulla popolazione immigrata". Inoltre, ha detto ancora Ronco, "si consolida in fase di giudizio, con ad esempio la minor tutela delle garanzie giuridiche degli immigrati e termina appunto in percorsi differenziati di sentenza".

Il 35,1% dei detenuti stranieri ha una pena inflitta inferiore ai 3 anni, contro il 23,7% del totale della popolazione carcerata, il 69,9% ha una pena residua inferiore a 3 anni (contro il 56,2%) e nel 34% si tratta di detenuti non definitivi (contro il 29% relativo ai detenuti italiani). Gli stranieri dunque entrano in carcere in misura maggiore per reati di bassa entità, fanno più fatica a beneficiare di misure alternative al carcere a cui si può accedere nella fase finali delle condanne, quali l'affidamento a servizi sociali o l'ottenimento della semilibertà (essenzialmente per la mancanza dei requisiti di affidabilità richiesti dalla magistratura, quali la mancanza di una residenza certificabile, di una rete famigliare o di un lavoro).

I RISCHI PER LA SALUTE IN CARCERE. Quali sono, dunque, gli effetti di questa situazione sulla salute degli immigrati in carcere? Secondo la Simm le strutture di detenzione sono già di per sè luoghi patogeni, a causa delle condizioni di sovraffollamento, di scarsa areazione e di igiene precaria. "Gli stranieri, inoltre – spiega la Simm – risultano particolarmente vulnerabili a queste problematiche, anche per la minor disponibilità di risorse economiche attraverso le quali accedere a beni come ad esempio alimenti a pagamento con cui arricchire i pasti carcerari o oggetti con cui adornare gli spazi. Infine pesanti sono le conseguenze della etnicizzazione delle sezioni carcerarie anche quando conseguenza delle richieste dei detenuti di condividere gli spazi con individui di simile culturale che spesso porta alla segregazione e alla molitiplicazione dei problemi di salute, spesso mentale, delle comunità etniche più bisognose".

LA SALUTE NEI CIE E NEGLI HOTSPOT. A questo si aggiunge la preoccupazione per la salute nei centri di identificazione ed espulsione e negli hotspot, luoghi – ha spiegato Valentina Calderone, direttrice dell'associazione 'A buon diritto', "in cui la restrizione della libertà degli individui avviene senza alcun fondamento giuridico" e "spesso per un lungo periodo". I servizi di assistenza sanitaria erogati in queste strutture "spesso non riescono a rispondere ai veri bisogni di salute che sono in primo luogo bisogno di ascolto e di supporto psicologico". Da qui, spiega la Simm, la forte presenza di episodi di autolesionismo che "consentono l'ingresso nei canali dell'assistenza sanitaria nazionale e spesso consentono l'uscita dai centri di detenzione e il tentativo di fuga".
 

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