di Isabella Ciotti

Roma, 16 giu (LaPresse) – “Sono un megalomane, ma mi piace fare errori. Mi aiuta a creare cose vere”. In attesa di ricevere il suo Globo d’oro alla Carriera, il premio conferito dalla stampa estera in Italia – questa sera all’ambasciata di Francia – il premio Oscar Dante Ferretti incontra i giornalisti nel giardino di Villa Farnese. Sul tavolo bianco a cui è seduto, lo scenografo dispone due foglie secche, come a formare un centrotavola: “Così è più carino”. Ora che la scena è pronta, si può parlare meglio. Del premio, della carriera, di come sono cambiati il mondo del cinema e della scenografia.

Una volta c’erano Fellini, Zeffirelli, la Cavani… oggi c’è Scorsese, ma è negli Stati Uniti. Si possono creare ancora grandi scenografie in Italia?

“Un tempo si costruiva molto in teatro, con Fellini ad esempio si trattava ogni volta di inventare dal nulla, di creare realtà che non esistevano da nessuna parte. In Italia, purtroppo, oggi le location sono sempre le solite, basti pensare all’abitudine di alcune produzioni di affittare delle case. E infatti non mi chiamano più, perché io voglio sempre ricostruire tutto. Ma devo dire che non mi dispiace. Lavorare in Italia mi servirebbe più che altro a trascorrere un po’ di tempo a casa.

E i registi di oggi, come sono?

“Sta crescendo una generazione di registi che mi piace: Francesco Munzi (vincitore di 9 David di Donatello per il film Anime Nere,. ndr), Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Giuseppe Tornatore. Anche gli scenografi di oggi mi piacciono. Dimitri Capuani, ad esempio, che ha lavorato con Matteo Garrone, è stato per anni mio assistente. Ma i loro progetti sono molto legati al modo di fare cinema italiano”.

La sua sfida più recente, ‘Silence’, girato a Taiwan: com’è andata?

“È stato piacevole ritornare. Abbiamo girato il mondo prima di riuscire a trovare una location adatta. La sfida è stata ricostruire il Giappone, dov’è ambientato il film, che racconta l’arrivo dei gesuiti nel paese nel 1640. Per di più, avevamo un budget ridotto e abbiamo dovuto adattarci. Dall’Italia, ad esempio, siamo riusciti a portare solo un pittore”.

Il suo modo di lavorare è cambiato negli anni?

“Quello è sempre lo stesso. Con Martin Scorsese di solito parlo non più di tre o quattro ore. Mi fa vedere dei film e di ciascuno mi dice: ‘Vedi questo? Ecco con quello che voglio fare non c’entra nulla’. Insomma, su una trentina di pellicole mi restano poche immagini a cui ispirarmi. Ma quando vede il lavoro completato si limita a un ‘Oh my God, you did this?’: mai nessuna obiezione, per nessuno dei nove film fatti insieme”.

E un premio alla Carriera come si accoglie?

“Lo accolgo bene, sperando che non sia l’ultimo. Io sono come Benjamin Button, sto crescendo ora. Vedete? Mi devono ancora crescere i capelli”.

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